La scuola dell’autonomia e gli alunni con DSA
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Nella pubblicistica medico-scientifica rimangono aperte molte domande sulle origini e le cause dei disturbi specifici di apprendimento, alcuni esperti del settore non nascondono che parlare di “disturbi” con base neurologica in organismi in pieno sviluppo sia un autentico azzardo. Ma era allora proprio necessaria una definizione legislativa?
In una situazione così complessa e per certi aspetti drammatica del nostro Paese, rischia di rimanere in ombra il processo che inizia ad aprirsi nelle scuole per l’attuazione della legge 170/2010 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”) e relative Linee Guida (12 luglio 2011).
Diciamo subito che sulla legge qualche dubbio aleggia in diversi ambienti. Non tanto per il merito in sé (l’esigenza di una risposta istituzionale al problema dei DSA è indubbia) quanto per alcuni aspetti della legge stessa che non si limita ad affermare l’esigenza di riconoscere e dare risposte concrete a diritti fondamentali della persona. Lascia per esempio perplessi una definizione legislativa delle quattro tipologie di DSA, pur attenuata dal comma 7 dell’art.1 “nell’interpretazione delle definizioni … si tiene conto dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche in materia”. Sorprende inoltre l’assenza di un qualche riferimento allo scenario europeo e internazionale, ben documentato, per esempio, dalla indagine di TreElle edita da Erickson 2011, che avrebbe potuto offrire, probabilmente, un approccio più aperto al problema dei DSA. Nella pubblicistica medico-scientifica di riferimento non tutti infatti convergono su una definizione così netta come quella sancita dalla legge; rimangono aperte molte domande sulle origini e le cause di questi disturbi e alcuni esperti del settore non nascondono che parlare di “disturbi” con base neurologica in organismi in pieno sviluppo sia un autentico azzardo. Ma era allora proprio necessaria una definizione legislativa?
Potremmo tranquillamente ignorare questa parte della riflessione se essa non aprisse a un rischio che va scongiurato e contrastato con ogni mezzo: la medicalizzazione dei soggetti con DSA. Questo rischio non è tanto nella legge o nelle Linee Guida ma nel contesto culturale in cui questa normativa viene calata.
Da anni molteplici associazioni studiano con preoccupazione il fenomeno della medicalizzazione dei comportamenti di bambini e adolescenti. Clamorosa, la ricorderanno molti, la vicenda del “Ritalin” ai bambini iperattivi (commercializzazione approvata in Italia nell’ottobre del 2000 malgrado i riscontri negativi inequivocabili accertati negli USA). La medicalizzazione non è solo un aspetto odioso della ricerca di business da parte delle grandi aziende farmaceutiche, è anche uno dei segnali inquietanti della crisi educativa del nostro tempo: è più “facile” pensare a un farmaco che risolve il problema piuttosto che porsi la responsabilità di affrontare il problema dal punto di vista educativo e didattico. Tradotto nel nostro versante: può essere più semplice farsi certificare un disturbo (con relative facilitazioni, compensazioni e dispense) piuttosto che affrontare il problema della diversità degli stili e dei tempi di apprendimento dei bambini/adolescenti, con una conseguente riorganizzazione e qualificazione del lavoro didattico.
Ricondurre una difficoltà di apprendimento a un presunto deficit certificato dal medico, significa negare in partenza le potenzialità dell’intervento didattico-educativo. E non è un rischio remoto se si considera quanto emerso dalla già citata ricerca di TreElle a proposito della consistente quota di certificazioni delle ASL, rilasciate ad alunni senza alcuna disabilità (op.cit. pagg. 140-141).
Se poi a questa condizione si accompagna per i familiari dello studente fino al primo ciclo, un diritto alla flessibilità del proprio orario di lavoro (una misura molto vicina a quanto previsto della legge 104 per i genitori di alunni disabili, anche se oggi il quadro delle norme contrattuali appare assai meno favorevole a facilitazioni), ci si può rendere conto del rischio davvero alto di medicalizzazione del problema e di una possibile rincorsa alla certificazione. Se poi la certificazione diventa uno strumento anche per porre il proprio figlio al riparo da una valutazione vissuta come “minaccia” del percorso di studi, allora si comprenderanno i passaggi delicatissimi di questa operazione. E anche questo, dal punto di vista del genitore, è del tutto comprensibile. Deflagra infatti un evidente contrasto tra una linea generale che ha pervaso in questi anni, con un bel carico ideologico, la scuola italiana sul versante della valutazione degli apprendimenti (“più rigore, selezione e merito”) e le indicazioni pedagogiche delle “Linee Guida” ispirate a una logica inclusiva e di rinnovamento per tutti della didattica nelle classi. Se il problema è mettersi al riparo da una valutazione intransigente, la certificazione di un disturbo è la formula giusta. Non è lo stigma di un handicap ma il lasciapassare per un percorso scolastico meno faticoso e meno esposto. Non riesce a leggere come gli altri? Non riesce a fare i conti come gli altri? Allora è un DSA da certificare, senza perdere tempo nella ricerca delle cause ambientali ed educative che possono avere determinato una difficoltà di apprendimento. Se ciò accadesse nelle aule, sarebbe un vero disastro. Connesso a questo c’è, in campo scolastico, il rischio di delega all’insegnante specializzato in DSA. Anche qui una riflessione attenta del legislatore su quanto accaduto sul versante della integrazione dei disabili, avrebbe potuto dare qualche utile indicazione. La ricerca di TreElle sulla integrazione scolastica avrebbe potuto rappresentare una base seria di riflessione per individuare una direzione di marcia immune dai limiti oramai lampanti del processo di integrazione che prima o poi bisognerà affrontare. Ma di questo non se ne coglie traccia non nelle Linee Guida (che sottolineano con insistenza la presa in carico del problema DSA da parte di tutta l’organizzazione della scuola) ma nelle linee gestionali che stanno avanzando nei territori.
Con uno stanziamento di due milioni di euro, è infatti ai nastri di partenza la formazione del personale prevista dall’art.4 della legge 170. per gli anni 2010 e 2011. Indubbiamente la formazione è la risorsa fondamentale per contaminare le scuole con una cultura della innovazione didattica che deve essere rivolta a tutti e non solo ad “alcuni casi particolari”.
Se infatti vogliamo scongiurare il rischio di una centralità della diagnosi medica, finalizzata alla certificazione con i rischi sopra richiamati, occorre lavorare per una centralità della diagnosi didattica non dei DSA ma del gruppo classe, per orientare gli insegnamenti verso una pratica aperta di personalizzazione dei curricoli. Per questo avremmo bisogno di una buona quota di risorse da attribuire alle scuole, a livello territoriale e di reti, perché organizzino sul campo le azioni di formazione. In quel contesto le scuole potrebbero anche utilizzare le competenze esperte di quanti utilmente possono concorrere a una formazione attenta anche alla gestione dei DSA: mi riferisco ad esperti delle ASL, delle università e del mondo delle associazioni di volontariato che in questi anni si sono già mossi in questa direzione.
In sostanza avremmo avuto bisogno di un riaffermato ruolo della autonomia delle scuole, intese come i soggetti principali di una vasta azione di sensibilizzazione del contesto territoriale e di formazione di competenze adeguate. La formazione infatti, per essere efficace, come in questi casi deve essere, va giocata sul campo, negli ambienti in cui vivono l’esperienza educativa gli adulti e gli studenti. È in quei contesti che anche l’esperto può offrire la propria competenza per aiutare gli altri a risolvere i problemi, senza rischi di deleghe improprie e soprattutto inefficaci. Ma della scuola autonoma e del suo ruolo nella formazione non c’è traccia nella legge e nelle Linee guida, salvo i soliti richiami rituali e burocratici. E soprattutto non ce n’è traccia nelle linee gestionali dell’amministrazione.
La formazione infatti partirà nel mese di novembre ma con una finalizzazione ben precisa. Il progetto, ai nastri di partenza, prevede un percorso di formazione di 30 ore rivolto a docenti di ogni ordine e grado, secondo quattro moduli che vedranno impegnati esperti dell’università, delle ASL, delle associazioni di volontariato. La frequenza del corso sarà riconosciuta utile come credito universitario per partecipare a corsi di perfezionamento e master in “Didattica e psicopedagogia per i DSA” in progettazione presso le facoltà di Scienze della Formazione dei vari atenei.
Una nuova figura professionale? Perché è stata questa l’esigenza primaria che è stata individuata nel momento in cui nelle scuole, già dalle prossime settimane e mesi, rischiamo l’invasione di certificazioni e conseguenti interventi? Perché non si è data la priorità a potenziare i fondi di istituto per le scuole disponibili alla formazione sul campo dei docenti impegnati nella innovazione organizzativa e didattica? Siamo sicuri che non si corre il rischio di una variante della attuale figura dell’insegnante di sostegno con tutti i rischi di delega che ne conseguono? E soprattutto: se la competenza fondamentale che la scuola deve saper esprimere è la competenza didattica, come si può affidare questo compito alla Istituzione che non ha mai formato competenze didattiche?
Come si vede la partita che si è aperta sul versante dei DSA è molto più complessa e generale di quanto a prima vista possa sembrare. Chiama in causa la scuola, la sua capacità di praticare l’autonomia, di lavorare a modificare l’organizzazione del lavoro e della qualità della didattica per essere davvero inclusiva. Chiama in causa la politica scolastica, l’uso accorto delle risorse in una fase in cui ogni scelta andrebbe calibrata con molta attenzione e senso delle priorità. Chiama in causa l’insieme dei genitori alle prese con ansie da prestazione e traumi da voti decimali che vengono letti come sentenze inappellabili e non come uno degli indicatori di una valutazione attendibile che non può essere confinata nel solo voto decimale di misurazione di una prova.
Insomma una questione di prima importanza che non va nascosta nel quadro poco rassicurante che ci circonda ma che deve coinvolgere tutti i soggetti interessati al futuro della scuola pubblica.
Dario Missaglia