Steve Jobs, ovvero la tecnologia dell’immaginazione
La biografia di Steve Jobs sollecita alcune riflessioni sulla natura della tecnologia e il suo rapporto con la cultura. E sull’educazione.
La vita, le avventure industriali e le creazioni di Steve Jobs appartengono a uno di quei casi che bastano, da soli, a far capire l’essenza di un fenomeno storico. I media l’hanno commentato ampiamente dopo la sua morte. Per studiarlo a fondo in tutti i suoi aspetti ci vorrà tempo, ma alcune riflessioni sulla natura della tecnologia e il suo rapporto con la cultura e la vita umana vengono spontanee. E si tratta di riflessioni che hanno molto a che fare con il rapporto fra tecnologie ed educazione.
Alla base di tutto c’è un aspetto specifico della moderna tecnologia. Gli artefatti sono stratificazioni più o meno complesse in cui il sistema finale è composto da sottosistemi, ciascuno dei quali è a sua volta composto da sottosistemi di livello più basso e così via fino ai componenti di base. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione realizzano questo modello nel modo più compiuto e complesso. Dal silicio in su, fino alle applicazioni (Word, Excel, Facebook, suoni e immagini) ci sono parecchi strati. A ogni strato si aggiungono non solo nuovi oggetti (Hardware), ma anche nuovi programmi (Software) per gestirli e renderli “intelligenti”. Così l’informatica è il più complesso e flessibile sistema tecnologico mai esistito.
Solo i componenti di base (per esempio i circuiti logici) sono inventati, progettati e prodotti sulla base di principi fisici. Ma nella creazione di sistemi il progettista e l’inventore debbono operare una sorta di assemblaggio e, a partire dalle funzioni dei dispositivi di livello inferiore, che sono più o meno gli stessi a disposizione di tutti, debbono creare un oggetto di cui essi definiscono il significato, cioè l’uso e l’utente. Le metafore del Lego o del Meccano aiutano a capire quello che succede. Il percorso di Steve Jobs si è svolto in questo contesto. Per cui la sua indiscussa genialità non è, come hanno detto alcuni giornalisti, dello stesso genere di quella dei fisici applicati, come Edison o Marconi.
Il percorso di Jobs ha visto, più o meno, due fasi. La prima, dal 1976 al 1985, finalizzata alla creazione e produzione di computer personali (Apple I, Apple II, LISA, Macintosh). L’idea non era del tutto nuova e inattesa, ma Jobs (e Wozniack) l’hanno interpretata in modo originale. Con Macintosh c’è una discontinuità: le interazioni uomo-macchina escono dal mondo dei linguaggi alfabetici per entrare in quello delle icone. Non a caso Jobs, che aveva rinunciato al suo percorso accademico, aveva seguito solo un corso di calligrafia. Inizia una rivoluzione anzitutto cognitiva che, combinandosi con le applicazioni “pratiche”, come i sistemi di scrittura, finirà per creare una nuova e larga utenza.
Fin dall’inizio emergono alcune caratteristiche permanenti della Apple. Anzitutto la qualità delle soluzioni tecniche: affidabilità, alte prestazioni, facilità di uso. Poi, quando sono comparse le soluzioni standard (IBM+Microsoft), c’è stata la scelta di non adeguarsi e seguire la propria strada “fuori dal coro”, affidandosi, per la diffusione, non ai benefici dello standard, ma a una propaganda “evangelica” da persona a persona. L’immagine che Apple ha voluto dare è quella della mela da mordere, cioè della cosa gustosa, da assaggiare subito come in un riflesso istantaneo. Il computer come terreno di esplorazione, anche imprevedibile, da usare più sotto il segno del piacere che sotto quello dell’utilità. Il computer Apple si è presentato come il computer del ricercatore, tutto il contrario del computer del ragioniere di Microsoft che, non a caso, ha scelto per i suoi prodotti più famosi la metafora dell’Ufficio e della scrivania. Da qui una forte connotazione identitaria di Apple, che ha trovato il suo pubblico e, alla fine, quasi una comunità, nel mondo della scuola e della ricerca. Una comunità minoritaria, ma indistruttibile. Jobs fu influenzato, come ricorda Fritjof Capra (l’autore di “Il tao della Fisica”) in un recente articolo su Repubblica, dal clima californiano della controcultura hippy irriverente e informale e dalle filosofie orientali. La cosa più singolare è come questo clima si sia sposato con l’innovazione tecnologica. Per capire bene di cosa si tratta va riletto “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta” di Pirsig, che svela come da queste filosofie nascano il concetto di qualità e l’idea, estranea all’occidente, che il rapporto con la tecnologia è tanto umano quanto quello con la natura: “Il Budda, il Divino, dimora nel circuito di un calcolatore o negli ingranaggi del cambio di una moto con lo stesso agio che in cima a una montagna o nei petali di un fiore”.
La seconda fase, degli anni ’90, è caratterizzata, da nuove scelte. Una attenzione estrema agli aspetti estetici: l’iMac G3 non solo integrava in una unica scatola traslucida azzurra, fucsia o verde tutti gli elementi del computer, ma si integrava a sua volta magnificamente nel design di un moderno salotto; la multimedialità spinta, per cui il computer diventa anche macchina musicale, laboratorio fotografico e filmico; l’apertura, tramite iTunes, di un negozio permanente a distanza nel quale si possono acquistare musica, libri, film e le numerose applicazioni Mac-compatibili. Infine, come ultima svolta, consentita dalla miniaturizzazione dei componenti, la produzione di iPod e di oggetti, iPhone e iPad, destinati a un modo d’uso specifico, ma che, contenendo comunque un’anima-computer, sono aperti a innumerevoli applicazioni.
Si intensifica l’atmosfera densa di metafore, quasi mistica, che accompagna questi prodotti. Il loro annuncio commerciale, fatto personalmente da Jobs, osservano alcuni, è “un annuncio” tout-court. Ma c’è anche una lettura metafisica di queste tecnologie. È quella che Maurizio Ferraris propone nel suo recentissimo “Anima e iPad” di cui citiamo la rapida sintesi del risvolto di copertina: “Anima e iPad sono dunque gemelli. E l’iPad che, quando è spento, con il suo schermo lucido, può servire come specchio per pettinarsi o rifarsi il trucco, quando è acceso, con la sua memoria attivata, diviene letteralmente lo specchio dell’anima”.
Non so se Jobs abbia mai enfatizzato l’uso educational dei suoi computer, ma di fatto, negli USA, esso è stato importante. E infatti furono sviluppate molte applicazioni didattiche già per Apple II. Nelle scuole europee invece ha prevalso la preoccupazione dello standard e della compatibilità. In Italia il Piano Nazionale di Informatica degli anni ‘80, scelse esplicitamente come standard di base il sistema operativo MS-DOS di Microsoft. Il successivo Programma di Sviluppo delle Tecnologie Didattiche non impose standard, ma comunque non vi fu una larga diffusione di Apple.
Ma quali riflessioni ci suggerisce per l’educazione il caso Steve Jobs? Vediamone alcune in breve.
La prima riguarda la formazione di quelli che debbono progettare le tecnologie. Nella progettazione il rispetto di standard è sempre un’istanza presente, ma ridurre la progettazione all’applicazione di standard è miope. Quello che abbiamo definito assemblaggio è un processo che richiede la forza deduttiva della logica, ma soprattutto quella euristica della scelta e dell’invenzione. E queste sono guidate dall’immaginazione. Le conseguenze per la formazione sono enormi: una rivoluzione dell’Istruzione Tecnica.
La seconda riguarda tutti. Le tecnologie sono un fenomeno culturale complesso, aperto e a volte imprevedibile, tutt’altro che quel processo deterministico che molti ancora immaginano. In esso si incrociano abilità e saperi tecnici, bisogni, desideri, scenari, immaginazione, e persino ideologie e visioni del mondo. La comprensione di questo fenomeno è un problema di tutti e richiede una adeguata attenzione di tutte le discipline, inclusa la filosofia. Ma è anche un problema dei tecnici, che debbono avere coscienza del fatto che le loro scelte, anche se non se ne accorgono, sono connesse a contesti complessi.
La terza riguarda il modo di fare scuola. Il mondo della scuola arranca faticosamente dietro alle nuove tecnologie. Impiega tempi lunghissimi per adottare e imparare a usare le nuove soluzioni e, spesso, quando ha imparato, queste sono già superate. Ma questo sarebbe il male minore: un ritardo tecnologico non è così tragico. Il problema è la difficoltà a introdurre nuovi saperi e nuove abilità e di utilizzare quelli consolidati non solo per sviluppare la padronanza d’uso delle tecnologie, ma, soprattutto, per dare un senso a questo uso e per vivere nell’ambiente culturale che esse creano.
Mario Fierli