Valorizzare la lingua che evolve
Aver lavorato tutta la vita alla Treccani (da appena laureata a oggi) significa aver avuto il privilegio di imparare un mestiere (quello di lessicografa) quasi senza rendermene conto. Negli ultimi decenni del secolo scorso nelle sale che ospitavano le redazioni dell’Istituto della Enciclopedia Italiana lavoravano linguisti, filologi, critici letterari, lessicografi di grande esperienza. In questo modo ho appreso giorno per giorno, osservando, imitando, sbagliando e correggendomi, come si fa un vocabolario. E ho continuato a farlo per tutta la vita. Naturalmente, nel corso di più di cinquant’anni, molte cose sono cambiate: i dizionari in cinque volumi su carta redatti allora sono consultabili on line, gratuitamente. E negli ultimi anni abbiamo progressivamente modificato l’impostazione stessa del dizionario della lingua italiana, con molti cambiamenti, il più importante dei quali (qualcuno l’ha definito “rivoluzionario”) è stato quello di registrare aggettivi e nomi non più solo al maschile, come è stato fatto per secoli, ma al femminile e al maschile, abbattendo una consuetudine ormai anacronistica, fondata non sulla struttura linguistica dell’italiano, ma su una tradizione storico-culturale androcentrica, che risponde a un’analoga visione del mondo e della società. Questo nuovo modello di equilibrio tra i generi è già stato seguito da altri dizionari, e mi auguro che sia imitato in futuro anche in altri Paesi le cui lingue presentano la differenziazione di genere. Si è trattato di un lento processo di maturazione: prima abbiamo cominciato a registrare autonomamente i nomi di professione, ruolo e mestiere al femminile, poi ci è sembrato, col condirettore Giuseppe Patota, che fosse arrivato il momento di cambiare una consuetudine seguita ormai solo per inerzia e conformismo. In ogni caso, non si tratta di un’imposizione dall’alto, ma, al contrario, di un adeguamento (tardivo) ai cambiamenti sociali e al ruolo che le donne svolgono da tempo nella società. Del resto, il maldestro tentativo di imposizioni attraverso una vera e propria politica linguistica attuata durante il fascismo ci deve sempre ricordare che non si può imporre un uso attraverso leggi o decreti. Anche le nuove parole hanno bisogno di tempo per affermarsi, per essere accolte o rifiutate dalla comunità dei parlanti. Alcune di esse si affermano perché corrispondono al bisogno di un termine mancante per indicare un nuovo fenomeno (per esempio, infodemia), un concetto, uno strumento, altre rimangono episodi effimeri legati a una moda o a un episodio diffuso mediaticamente (celebre il caso dell’aggettivo petaloso). I linguisti, anche in materia di neologismi, osservano, registrano le nuove coniazioni, le raccolgono in dizionari a parte (importanti perché rappresentano la documentazione cronologica del primo apparire delle nuove parole), ma si guardano bene dal promuovere o dal censurare. E lo stesso avviene per i fenomeni linguistici, rispetto ai quali chi fa questo mestiere si limita a ricordare quale è la norma, e a studiare i cambiamenti in atto.
Questa attitudine all’osservazione l’ho forse sviluppata, come dicevo all’inizio, nei lunghi anni di lavoro alla Treccani, circondata dai volumi delle enciclopedie nelle quali potevo osservare, verificare, controllare ogni dato, ogni notizia, ogni documento, con la certezza che si trattava di dati passati al vaglio e al controllo dei massimi studiosi del tempo (e la stessa certezza non ce la può certo dare Wikipedia, con le fonti non sicure e a rischio di errore). Ma forse, per spiegarmi l’origine di questa propensione, devo risalire agli anni dell’infanzia, al privilegio di averli vissuti nel secondo dopoguerra in una Roma appartata e silenziosa, in una strada (via Margutta) in cui artiste e artisti, scrittrici e scrittori, artigiane e artigiani lavoravano alle loro opere, in un periodo nel quale agli splendori della scuola romana si andavano sovrapponendo le straordinarie novità dell’informale, dell’astrattismo, di un’arte non più figurativa. Forse è stato lì che ho imparato, senza rendermene conto, a capire che i cambiamenti, nell’arte e nella lingua, sono una forma di grande vitalità, e che proprio grazie al modificarsi continuo l’arte e la lingua continuano a vivere.
Valeria Della Valle Docente di Linguistica italiana alla Sapienza Università di Roma, corrispondente dell'Accademia della Crusca. Presso l'Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee del CNR ha coordinato il progetto di ricerca Osservatorio neologico della lingua italiana (Onli). Nel 2022 pubblica, La strada sognata,( Einaudi). Nel 2023 pubblica Le parole del fascismo: Della Valle e Gualdo edito in collaborazione con "la Repubblica"