NEET, un fenomeno persistente
E’ di grande interesse, anche per chi nella scuola si occupa di prevenzione e recupero degli abbandoni precoci, un recentissimo studio curato da ActionAid e CGIL sui NEET. Gli oltre 3 milioni di giovani dai 15 ai 34 anni che non studiano, non lavorano e in grande maggioranza ( più del 66% ) non cercano un’occupazione. Un allarmante primato italiano in ambito europeo che, nonostante le azioni messe in campo finora, non si sta riducendo, e tende anzi a crescere soprattutto nel Sud. Il fatto che ai molti non impegnati nella ricerca “attiva” di un lavoro si aggiunga, per una quota non marginale, anche la dichiarazione di indisponibilità ad eventuali occasioni lavorative, alimenta nell’opinione pubblica la narrazione colpevolizzante ( nei media si è arrivati a parlare di “generazione NEET” ) di un’intera generazione che sarebbe connotata dall’incapacità di misurarsi con le sfide della vita adulta, opportunisticamente legata alle convenienze di una protratta dipendenza dal nucleo familiare, nullafacente, choosy, intrappolata in aspettative irrealistiche. I ragazzi del “divano”, insomma, mentre tante aziende stentano a trovare lavoratori con le competenze giuste o anche solo con sufficiente motivazione da reggere, i tempi , gli orari, le retribuzioni, e anche l’instabilità, imposte dall’attuale mercato del lavoro.
E’ comunque indubbio, al netto delle interpretazioni malevole sul peso delle responsabilità individuali che da sempre accompagnano la lettura dell’inattività o della disoccupazione di lunga durata, che le ricadute negative, dirette e indirette, sia sugli individui che sulla società, sono numerose. Se la persistenza della condizione di NEET espone i singoli a pericolose derive sul versante dell’autonomia, della partecipazione civica, della piena cittadinanza, è l’intero Paese che ne paga i costi economici e sociali. Tra i più gravi, non ci sono solo minori entrate fiscali, costi maggiori per le prestazioni del welfare, lavoro nero, malessere sociale. C’è la sottoutilizzazione di energie preziose, tanto più a fronte del progressivo invecchiamento della popolazione, per lo sviluppo economico, il benessere sociale, l’innovazione tecnologica, le tante “transizioni” di questa fase. E’ dunque drammatico che finora nessuno dei programmi dedicati, anche se ben finanziati, abbia sortito risultati positivi, o almeno promettenti. La tesi sostenuta nello studio è che l’esito fallimentare sia dovuto in primo luogo a una lettura omologante e semplicistica del fenomeno, cui concorrono invece molte e diverse cause, e a programmi che ne hanno conseguentemente affidato o intendono affidarne la soluzione a misure – come i tirocini e il servizio civile, nel caso di Garanzia Giovani, o come la formazione di modello duale nei programmi PNRR di politiche attive – che non tengono conto della grande articolazione delle condizioni e dei bisogni individuali, dell’ età ( intercorrono in effetti ben vent’anni tra i 15 e i 34 del target ), di titoli di studio, di esperienze lavorative, delle differenze di genere e di ruoli familiari, di cittadinanza, di contesti territoriali. Di qui gli approfondimenti svolti dallo studio che, attraverso l’analisi dei dati ISTAT 2020, mette in evidenza che la condizione NEET, un fenomeno non leggibile solo in termini di differenza generazionale, ma attraversato da tutti i divari, le differenze, le discriminazioni che attraversano la società e il mondo del lavoro, è connotato da altissima eterogeneità e da spiccate articolazioni interne. I cluster individuati sono almeno quattro, mentre sullo sfondo vengono richiamate le contraddizioni e i problemi irrisolti che in Italia rendono particolarmente problematica sia la transizione dalla scuola al lavoro che l’inserimento nel lavoro. Comprese, ovviamente, la “storica “ disoccupazione femminile e giovanile del Sud, la diffusione del lavoro nero e irregolare, i bassi salari e la diffusa precarietà di tanto lavoro “povero”, la rarità di apprendistati formativi, le responsabilità di tanta parte del mondo imprenditoriale. I NEET, insomma, come la punta più acuminata di una condizione giovanile difficile nell’Italia che “non è un Paese per giovani”, che investe poco e male nell’istruzione, nell’orientamento, nell’istruzione per adulti, nella formazione professionale. E’ la parte più interessante dello studio, ricca di spunti e di riflessioni. Interessante anche l’approccio con cui si propongono, in previsione delle prossime programmazioni delle risorse europee, azioni “multimisura”, che implicano percorsi ritagliati sui bisogni individuali, integrati tra diversi servizi, incardinati sulle caratteristiche locali. Un approccio che non delega ai Centri per l’Impiego, peraltro dichiaratamente disertati dai NEET, l’”intercettazione “ del target, ma prefigura l’attivazione, d’intesa con i Comuni e con il Terzo settore, di azioni con caratteristiche di continuità e progressività in grado di attrarre, rimotivare, riaccendere le luci che si sono spente.
Il primo dei cluster interpella indirettamente il versante dell’istruzione. E’ costituito dai NEET più giovani, tra i 15 e i 19 anni, con titoli di studio non oltre la scuola media ( sono il 35% del totale i NEET con i titoli di studio bassi, cui si aggiunge un 3% tra nessun titolo o di sola primaria , contro il 47% dei diplomati e il 16% dei laureati ). A differenza di altre ( i diplomati sono, per esempio, concentrati nel Sud ), la componente dei giovanissimi è in tutto il territorio nazionale comprendendo, nel Centro-Nord, anche ragazze/i di cittadinanza straniera. Non ha esperienze lavorative, non fruisce di supporti individuali al reddito, è presumibilmente disinformata dei servizi per il lavoro e delle opportunità formative. A differenza dei NEET laureati, in cui “attivi” e “inattivi “ nella ricerca del lavoro si equivalgono, i giovanissimi con bassi titoli di studio sono del tutto “inattivi”. Chiara Saraceno scrive nella prefazione al volume che “nel caso dei giovani a bassa scolarità scoraggiamenti e mancanza di fiducia nelle proprie capacità sono un fenomeno radicato, esito di esperienze ripetute di disconferma in un percorso scolastico ed educativo non solo breve ma accidentato, che non ha consentito il pieno sviluppo delle capacità e non ha fornito sufficienti esperienze di riconoscimento delle proprie potenzialità”. Seguono riferimenti al ruolo della scuola, sia di prevenzione che di “recupero di chi si è allontanato troppo presto”. Già. È, dovrebbe essere, il primo e più importante target dei CPIA, che invece pochissimi ne intercettano e ancor meno ne accompagnano a qualifiche e diplomi. Anche qui occorrerebbero gli interventi integrati e “multimisura” e, ancora prima, qualche riforma di tipo ordinamentale sparita da tempo dai radar della politica.