Il tramonto dell’inclusione
Una premessa doverosa
Mi occupo di disabilità fin dagli anni 70 e desidero di raccontare due storie per dare una giusta cornice a questo mio saggio sulla disabilità oggi.
Prima storia: 1972, da giovane maestro (20 anni) accolgo nella mia classe un bambino con la sindrome di Down, ben prima della storica Legge 517/77 che chiuse le scuole speciali. Ne ho un ricordo caro e sorprendente: un bimbo vivace, affettuoso, con un’intelligenza “pratica” marcata. Questo mio amato ex alunno è ancora vivo, nonostante i trattati di psichiatria dell’epoca fossero certi di due cose sul mondo Down: muoiono giovani e il loro QI è molto basso e non recuperabile. Mai diagnosi fu ai miei occhi così sbagliata. Ancora oggi questo mio ex alunno fa il benzinaio e le rarissime volte che lo incontro mi saluta ancora con uno squillante “ciao, maestro”, creando in me (vecchio pensionato) una nostalgica emozione di un passato felice.
Seconda storia: da neo-laureato in psicologia, nel 1976 accompagno un vasto gruppo di famiglie con figli cerebrolesi a Parigi da un mito clinico americano di quell’epoca, il fisioterapista Glenn Doman[1], in un cosiddetto “viaggio della speranza”. La sua teoria era suggestiva: stimolando accanitamente le vie nervose periferiche si sarebbe migliorato il sistema nervoso centrale e la massa cerebrale, con il ripristino di funzioni motorie importanti, come camminare.
Doman si presentò come un grande saggio: “se seguite le mie cure (fisioterapia 10 ore al giorno) i vostri figli cammineranno”. La disgrazia fu che nessuna fisioterapia intensa fece camminare i nostri bambini cerebrolesi, ma anzi molti peggiorarono per via dell’accanimento terapeutico.
Dalle mie due mini storie private ho desunto, nel mio lavoro, un doppio sentimento scientifico ed educativo: il piacere dell’umiltà di sorprenderci che l’altro disabile possa avere doti sorprendenti che i trattati clinici e le diagnosi negano, ed insieme lo scetticismo verso i santoni della guarigione garantita, i teorici della “verità clinica” fondata su una sacra “evidenza scientifica”.
La pensa come me il gesuita padre Cucci in un pregevole saggio della Civiltà cattolica del 2013[2] su quella che lui chiama “paradigma terapeutico”, e smonta i miti delle certezze diagnostiche il clinico Marco Bobbio[3] (figlio di Norberto) in un suo pregevole libro critico sul mito delle evidenze “scientifiche” attraverso aride raccolte di sintomi che non restituiscono mai la persona.
Ne recupereremo lo spirito di questi due sentimenti leggendo l’oggi in questo mio saggio.
L’esplosione delle certificazioni. La grande malattia
E’ probabile che per il prossimo anno scolastico avremo circa 380.000 alunni/studenti certificati con disabilità. Cioè: più di tre volte che nell’ultimo anno scolastico del “900 (116.000), pur con mezzo milione di studenti in meno[4]
In un quarto di secolo lo scenario “disabilità” è stato profondamente mutato da una spinta “medicalizzazione” e da neo malattie come lo spettro autistico, ADHD, DOP, ecc… che arriva a quasi metà dei certificati attuali. Cosa sta accadendo? Una specie nuova di Grande Malattia?
Questa domanda non stimola discussioni, né ricerche, né dibattiti pubblici. Solo una rassegnata constatazione e una caotica gestione del presente. Oppure all’inverso c’è chi pensa all’aumento delle certificazioni come una “conquista della medicina” che finalmente sa dare un nome clinico esatto (la già citata “evidenza scientifica”) ad ogni guaio dei nostri giovani.
Accade quindi che nelle nostre classi si spargano in maniera cospicua ragazzini con disabilità, in alcune scuole (es. i professionali) anche 3 o 4 per classe. Ma non basta: accompagna questa specie di grande malattia la diffusione di neo-problemi para-clinici quali le due neo patologie del primo 21° secolo: i DSA (anche loro verso i 300.000) e i cd. BES (di numero imprecisato), cioè tutti coloro che la scuola “non sa come cavarsela”. Per tutti questi: interventi ad hoc di carattere “speciale”, normative arzigogolate, didattiche improvvisate, cause nei tribunali.
Interessante è il caso DSA. Del tutto dimenticata la lezione di Lev Vigotsky sulla natura della dislessia come difetto -vedi il suo celebre ma quasi sconosciuto in Italia libro “Difettologia”[5] ha trionfato l’idea del DSA come “malattia” (disturbo) affidata al potere dei clinici fino all’idea che il DSA sia “uno stile di vita”. Da qui migliaia di certificazioni per avere la “medicina” del dispensativo-compensativo, cioè (detto sottovoce da numerosi genitori) “meglio un po’ malato che bocciato”.
Governa questa esplosione di “casi” la burocrazia ministeriale: disabilità + DSA + BES sono in primis un problema “cartaceo”: documenti, certificati, domande per posti e ore, riunioni, verbali.
Il Ministero ha prodotto in questi ultimi dieci anni strabordanti e pignolissime norme su tutto: la gestione dei posti, le ore di sostegno, la frequenza, le ambiguità sulla valutazione, poi subendo ondate di cause nei tribunali, spesso perse. La militarizzazione del PEI produce ansia formalistica figlia di una diffusa “pedagogia difensiva” che pare servire più a difendersi nelle cause civili che a progettare pedagogicamente cosa serva qualitativamente fare per l’inclusione.
Dunque perché questa grande malattia? Posso in questa sede solo accennare ad alcune variabili che la mia ricerca e lo scarso dibattito in corso ci aiutano per offrire alcuni perché.
C’è una stretta relazione tra aumento delle certificazioni di disabilità e problemi evolutivi con il calo demografico e l’aumento di età delle primipare. Cause genetiche o epigenetiche? Eccessiva mania alle perfezioni dei figli? Mito del benessere? “Figli ideali” se precoci?
Suggerisco sul tema un saggio interessante di uno psicologo inglese, Franck Furedi [6], dal quale traggo qui alcune righe emblematiche e chiare sugli esiti della medicalizzazione in corso:
Negli ultimi vent’anni sempre più bambini in età scolare vengono classificati come disabili all’apprendimento.
Ma patologizzare un basso rendimento scolastico ha spesso l’effetto negativo di indurre i genitori e gli insegnanti ad abbassare le aspettative, con il risultato di compromettere ulteriormente la motivazione del bambino.
Ma i genitori possono ottenere un trattamento speciale per i figli in virtù della loro disabilità.
Tutto questo influenza il modo di pensare la propria salute. Se questo modello si imporrà, è da attendersi un ulteriore incremento di comportamenti «malati»: «La malattia, se viene usata come chiave per l’interpretazione dell’esistenza, non solo indica come ci si deve sentire e vivere i problemi, ma costituisce anche un invito all’infermità.
Oggi la cultura terapeutica, con l’esagerazione del ruolo di malato, con le sue minori aspettative in materia di responsabilità individuale e con la tendenza crescente ad affidarsi all’ intervento terapeutico, porta a sminuire il sé, con la conseguenza di accentuarne la fragilità e la vulnerabilità.
Vediamo un altro aspetto. L’esplosione di diagnosi è erede di un cambiamento scientifico della medicina dagli anni 90 in poi che ha letteralmente “inventato” un neo quadro delle malattie. Il passaggio dallo strumento diagnostico americano DSM IV (1994) al DSM V (2013), utilizzati come bibbie cliniche dai medici anche in Italia, ha prodotto l’invenzione di tante nuove malattie, tra cui il chiacchieratissimo “stress post-traumatico” dopo la tragedia delle torri Gemelle.
Ne scrive criticamente lo psichiatra americano Allen Frances[7] che ha diretto la produzione del DSM IV e che critica aspramente il successivo DSM V perché “produttore di malattie”, al punto che il suo libro si intitola: “Primo non curare chi è normale. Contro la invenzione delle malattie”. Suggerisco il lettore ad abbinarlo al classico “Nemesi medica” di Ivan Illich[8] degli anni 70.
L’effetto è un’esplosione di diagnosi in tutto l’occidente, in particolare l’autismo che diventa uno spettro autistico, cioè una somma di sintomi vari che descrivono tutto e il suo contrario. E poi altri sintomi divenuti negli ultimi anni diffusi come l’ADHD e il DOP, con comportamenti reattivi, aggressività, isolamento. Diagnosticati sempre più presto. In particolare l’autismo, di cui non basta dire che sono sindromi una volta descritte in altro modo. I sintomi sono immensamente di più oggi che negli anni 70/90. C’è sotto qualcosa di nuovo e di strano. Cui neppure la genetica dà risposte.
E’ questo il “cuore clinico” dell’esplosione di certificazioni, qui l’aumento spropositato di diagnosi.
Questo “cuore” è aumentato anche da molte diagnosi di “ritardo mentale” lieve e grave, diagnosi che negli anni 90 erano scomparse anche per un diverso approccio scientifico sulle intelligenze. Bambini forse un po’ lenti, con genitori eccessivamente precocisti, e dottori pronti alla firma?
Accompagna questa esplosione di diagnosi il cambio di paradigma della psicologia europea che abbandona l’approccio umanistico della “persona in sé” (la psicanalisi e la psicologia dinamica) e sposa trionfalmente l’approccio behaviorista skinneriano della persona come “somma di comportamenti”, composta dunque di “sintomi”. Una neo magica pratica invade il terapeutico, non solo nella disabilità: la cura/riabilitazione delle sofferenze di una persona attraverso atti di stimolo/risposta che producono condizionamenti verso comportamenti più accettabili. La persona si fa sintomo, la pedagogia centrata sui potenziali individuali e sulla persona in sé da far cresce partendo dai talenti, diventa invece un’educazione come tecnica attiva di condizionamento. Un cambiamento epocale in cui siamo immersi. Per ogni piccolo comportamento-no ci sarà un magico stimolo-sì di rinforzo per condizionare e far ridurre/scomparire ciò che per il medico (lo psicologo, il genitore, l’insegnante) non va.
La terapia behaviorista crea luoghi separati di educazione.
Un esempio lampante ci viene infatti dal fenomeno dell’autismo: fuori dalla scuola si muovono nuovi soggetti altri che prospettano un futuro diverso dal nostro mito della Legge 517/77.
Vi sono in Italia ben 1.214[9] servizi socio-sanitari per l’autismo, ADHD e DOP, diagnostiche ma anche “terapeutiche” e di assistenza. Di queste ben 614 sono private. I finanziamenti sono cospicui. E’ frequente che i bambini e ragazzi con autismo frequentino questi “centri” anche in orario scolastico, fondati sulle terapie behavioriste, che diventano vere e proprie piattaforme di insegnamento. Cioè scuole speciali camuffate. Qui il confine tra scuola e terapia si mescola.
I finanziamenti nazionali e regionali sono cospicui. I 28.000 “tecnici” (medici, psicologi, terapeuti ABA, ecc..) che ci lavorano sono indirettamente veicoli di separazione, esaltando le loro terapie come quelle “salvifiche” da un destino “amaro”, cioè quello della scuola normale.
In molti casi funzionano anche “strutture permanenti” fino al ricovero del bambino/ragazzo. Quest’area di intervento che mescola clinica e pedagogia si sta diffondendo con successo. Naturalmente “approfittando” della debolezza e ignavia della scuola pubblica normale.
D’altra parte vediamo la condizione dei maggiorenni autistici: a 21 anni il 50% frequenta un centro sociosanitario diurno, il 22% non svolge alcuna attività.
Il caso autismo ci segnala che l’inclusione è fallita? Davanti all’incapacità dei governi di governare, alla politica di avere una visione coraggiosa e comunitaria, ai sindacati di aver cura degli utenti non solo dei dipendenti, il rischio c’è: il fallimento dell’inclusione. Cioè don Milani, Basaglia, la Falcucci figli del loro tempo, che non lascia eredi.
Il sostegno e gli educatori: la deriva isolante
E veniamo ora all’annosa questione del personale della scuola, della sua mala gestione e della sua preparazione professionale complessiva. E’ evidente che quanto sta accadendo nel mondo della clinica ha un impatto complicato nella gestione pedagogica e professionale degli insegnanti, al punto da chiedersi se si possa con questi numeri, queste neo disabilità, queste neo-terapie para-pedagogiche rispondere con la sgangherata e disordinata organizzazione del personale coinvolto e mantenere così la tradizione dell’inclusione scolastica nelle classi normali che dal 1975 fa (o faceva?) dell’Italia il primo paese inclusivo.
Vediamo in primis il tema del temi, quello dei “ docenti di sostegno”. Prima di tutto i numeri, come abbiamo fatto all’inizio di questo saggio evidenziando l’esplosione delle certificazioni. Nell’anno scorso i docenti di sostegno erano ben 228.000[10](10), di cui 92.000 precari senza titolo. Il dato va commisurato alla fine secolo 20° (come abbiamo fatto per gli studenti): nel 98/99 a fronte di 116.000 alunni/studenti certificati c’erano 67.000 docenti di sostegno, il 40% senza titolo.
In termini percentuali il rapporto tra studenti/studenti disabili e docenti/docenti sostegno è passato in 20 anni dall’8,6% all’attuale 21%. Appunto tre volte di più con cui abbiamo iniziato questo saggio. Ma il ventennio trascorso è stato funestato dalla questione dei docenti senza titolo, che dopo ben nove interventi straordinari e frettolosi corsi universitari annuali aperti a pochi candidati per acquisire il titolo restano ancora uguali al 40%. Questo spiega il successo dei titoli universitari romeni e altri, paesi in cui non c’è alcuna seria esperienza inclusiva.
Tutte le mosse ministeriali hanno sostanzialmente fallito. Ma c’è di più e di peggio.
Per fare prima ad avere sostegni con titolo si è ridotto il corso di specializzazione da 2 anni a 1, dimezzando competenze che si vorrebbero fini. Poi per fare presto si sono inventati 9 corsi annuali universitari cui hanno partecipato in prevalenza università e precari del sud.
I posti di sostegno di ruolo “ufficiali” annuali sono sempre contenuti, entrano dunque ogni anno una vasta massa di precari per completare la cd. “deroga”, tutti appunto ancora precari.
Con un effetto perverso: la forte mobilità annuale di questi docenti, umanamente comprensibile ma dannosa per gli alunni e gli studenti con disabilità, docenti che cercano di riavvicinarsi a casa se precari o emigrano dal sostegno alle cattedre se docenti di ruolo con titolo dopo 5 anni. L’effetto complessivo è di un’inclusione disordinata e confusa, con vivaci proteste delle famiglie che si trovano ogni anno a dover ripetere la “relazione” con un nuovo docente, del tutto ignaro del passato dei figli e spesso del tutto ignaro di cosa sia la disabilità. Alcune ricerche[11] (11) ci dicono che in media un alunno/studente con disabilità piuttosto che i 4 tradizionali docenti di sostegno che dovrebbe avere dalla scuola dell’infanzia alle secondarie (uno per ogni ciclo) ha in media da 8 a 14 precari che via via si scambiano durante la carriera scolastica. Dispiace dirlo: più che un “sostegno” diventa una specie di “guardianìa”! E il sostegno un mestiere strano e ambiguo. Transeunte.
Ma non è ancora finita. I precari laureati con un qualche titolo per insegnare non bastano. Soprattutto al nord. A fronte della penuria si assumono dunque anche persone dette “MAD” senza alcun titolo ma volenterose di un lavoro purchessia.
Ma non basta ancora. Vista la penuria, Valditara quest’anno si inventa di legalizzare di fatto i diversi titoli accademici online di pedagogia speciale “fioriti” in vari paesi europei con nessuna esperienza inclusiva effettiva, legittimati da un corsetto affidato ad un ente pubblico italiano che mai ha fatto fino ad oggi formazione. Incredibile.
In sintesi, la gestione dei docenti e dei posti di sostegno sono ormai giunti ad una deriva organizzativa, pedagogica e funzionale patologica. La speranza di voler “cambiare” metodo e gestione trova ovviamente attenta buona parte degli ispiratori (e gestori) delle “scuole speciali” camuffate in vario modo presenti soprattutto al nord con diversi escamotage giuridici.
Infine, oltre alle faticose e improvvisate azioni del Ministero, girano in quest’epoca tre teorie possibili per una soluzione diversa.
La prima viene da alcune associazioni di famiglie, le più corpose e forti, che propongono con insistenza la “cattedra di sostegno” tout court. L’idea non piace affatto ai sindacati, a molti pedagogisti, ma attira famiglie stanche dei tanti turn over dei propri figli. A me pare però anche una pericolosa spinta alla “delega” al sostegno di tutta l’inclusione, in realtà quello che già accade spesso oggi nelle migliaia di casi in cui l’alunno/studente con disabilità è proprietà dell’insegnante di sostegno e non di tutti i docenti della classe. E questa è la vera malattia in corso da anni sull’inclusione: la debole gestione del personale produce una tendenza alla delega isolante al docente di sostegno, in un processo di lavoro che chiamo di “isolazione”, fatto ad esempio da migliaia di “aule h” dove i nostri bambini e ragazzi vivono da soli con il loro sostegno.
Isolazione che con la cattedra di sostengo non verrebbe certo ridotta.
Vi è poi, come già detto, la diffusione di scuole speciali camuffate, di cui per la verità si parla molto poco sia dalla politica che dai sindacati, quasi una specie di “vergogna necessaria” a fronte dall’incapacità del sistema pubblico a gestire diversamente l’inclusione per tutte le disabilità.
Gira anche da alcuni mesi una proposta che non trova attenzione da parte della politica, né delle associazioni, né dei sindacati, che temono lo “scippo” dei posti di sostegno, cioè il calo dei posti di lavoro. Viene chiamata “cattedra inclusiva” questa proposta di cambiare rotta radicalmente o quasi del tutto costruendo una formazione speciale obbligatorio per tutti i docenti curricolari, svolto per un arco di anni sufficiente, in modo che tutti i docenti sappiano di disabilità, affiancati da strutture tecniche di servizio pedagogico territoriale.
In fondo una cosa simile è già accaduta negli anni 80 quando la riforma dei programmi della scuola elementare produssero un corso triennale gestito dagli IRSSAE in cui tutti i maestri e le maestre furono obbligati ad un corso intensivo di grande efficacia. Un’esperienza unica nella storia della scuola repubblicana. La proposta della cattedra inclusiva non intende sopprimere i docenti di sostegno, ma anzi evidenziare la loro competenza connettiva con i colleghi per condividere tutti l’inclusione. Vedo il nascere di alcune sperimentazioni, e la cosa è interessante. Quanto meno la proposta tocca il cuore della crisi dell’inclusione: la necessità cioè di aumentare le competenze inclusive di tutti i docenti, nessuno escluso, perché gli alunni/studenti con disabilità siano davvero di tutti i loro docenti. D’altra parte, finora qualsiasi tentativo di sensibilizzare i docenti curricolari alla conoscenza e presenza nell’inclusione è fallito. Restano minoritari ed encomiabili i casi di collegialità sostanziale. In media ci si augura tra i docenti il quieto vivere reciproco.
Altrimenti il futuro che vediamo più aggressivo e vincente sarà il ritorno alle scuole speciali.
Fosse finita qui la questione, sarebbe tanto ma non basta. C’è un di più che non va e di cui nessuno parla. A questa crisi patologica del personale si accompagna quella degli assistenti educativi previsti dalla Legge 104/90 e mai chiaramente normati. Si tratta oggi di una massa cospicua, circa 90.000 (nel 1999 meno di 8.000!) di educatori gestiti (male) da cooperative sociali a contratto con gli enti locali, in genere con laurea triennale in educazione e pedagogia L 19.
Gli educatori sono più stabili dei docenti di sostegno, ma di fatto pagati a cottimo. Eppure spesso salvano la situazione se c’è una imperfetta relazione tra docenti e studenti. Ma su questi educatori c’è confusione politica totale: ci sono proposte di legge per statalizzarli (come si fece con i bidelli comunali nel 1999), ma ci sono associazioni di famiglie che vorrebbero invece “tecnici specialisti privatizzati” della loro patologia, confondendo il pedagogico con il tecnico clinico.
Questi educatori così maltrattati rappresentano anche l’idea limite dell’inclusione à l’italienne di oggi: avere per ogni ora di scuola di uno studente con disabilità un qualcuno che non sia l’insegnante curricolare, quindi una guardianìa a tempo pieno. In sostanza l’isolazione di fatto, verso “aule h” separate, in tendenza nuove scuole speciali camuffate.
Eppure non c’è dubbio che il tema della contitolarità e corresponsabilità dei docenti ed degli educatori sia tema generale che va ben oltre la disabilità. C’è una spinta anche in altre aree della sofferenza (es. disagio, DSA, ecc..) di trovare qualche “esperto-altro” che se ne prende carico, liberando i curricolari a gestirsi solo le loro “normali normalità”.
Nonostante questo disordine gestionale, famiglie (e insegnanti) auspicano come “mito positivo” un numero di ore tra sostegno ed educatore il più possibile vicino al cosiddetto 1:1, cercando appunto la “guardianìa” sopradescritta.
D’altra parte tra DSA, BES e disabilità si moltiplicano le burocrazie. Molto di questo brulicante documentare sa di “pedagogia difensiva” verso agguerriti avvocati spinti da famiglie arrabbiate.
Altro che “comunità educante” così retoricamente scritta nei contratti e così fragile nei fatti . Riapriamo una discussione seria sulla corresponsabilità dei docenti che non decolla mai.
Altrimenti isolazione invece, non inclusione.
[1] Glenn Doman “Cosa fare per il vostro bambino cerebroleso” 1972, ultima versione editore Red Milano 2015.
[2] Giovanni Cucci, “La cultura terapeutica nelle società occidentali” da La Civiltà Cattolica quaderno 3907 aprile 2013
[3] Marco Bobbio “Il Malato Immaginato i rischi di una medicina senza limiti,” Ed. Einaudi 2010
[4] Rapporto annuale ISTAT sull’inclusione scolastica degli alunni/studenti con disabilità. Tutti i dati presentati in questo saggio sono ripresi da ISTAT, che svolge ogni anno relazioni significative e statisticamente più solide dei dati sparsi del Ministero istruzione
[5] Lev Vigotsky “Fondamenti di diffettologia” Bulzoni editore, 1986
[6] Furedi “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” Feltrinelli 2005
[7] Frances “Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie” Bollati Boringhieri 2013
[8] Ivan Illich “Nemesi medica” Feltrinelli 1974 e “Il paradosso delle professioni disabilitanti” Erickson 2015
[9] dati riportati da “Quotidiano sanità aprile 2024”
[10] Dati ISTAT, dal Rapporto annuale sull’inclusione scolastica 2023
[11] Raffaele Iosa “La grande malattia” 2014 pubblicato in diversi siti
Raffaele Iosa Già direttore didattico e ispettore responsabile ufficio Inclusione MIUR e rappresentante presso European Agency special education needs . Esperto di didattica inclusiva, è saggista e autore di numerose pubblicazioni, svolge attività di formazione di dirigenti scolastici e insegnanti.