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Riflessioni su… l’Innominato

Pubblicato il: 08/04/2014 14:38:10 -


Condivisione di un compito da svolgere a casa: “Dalla lettura de I promessi sposi... alle riflessioni sull’Innominato”.
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“Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo…” ma la sua memoria è tramandata in ben più di un libro… Una memoria macchiata di scelleratezze, delitti, omicidi, atrocità immani… Chi è costui?
Il Manzoni si limita a definirlo l’“Innominato”, quasi come intimorito dalla responsabilità di rivelare la sua reale identità. Ciò non contribuisce per nulla a rischiarare il fitto alone di mistero che avvolge tale figura, un mistero che risulta di fatto essere l’ingrediente essenziale al fascino coinvolgente che il nostro personaggio non può non suscitare nel sensibile animo del lettore. Affascinante la sua storia, inaspettata la sua psicologia, l’Innominato è forse più ben congegnato e artisticamente “studiato” personaggio a prendere vita dalla magica penna manzoniana, o meglio, dal magico manoscritto anonimo, come preferirebbe di certo sentir dire il Manzoni…

Storicamente il misterioso “senza nome” è identificabile in Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Chiaradadda, notizie qui riportate più per mera curiosità che per necessità, dato che il nostro autore ha preferito tacerle dando vita, nonostante ciò, a un racconto completo di tutto il necessario.
Abbiamo poco sopra sostenuto il fascino della storia di questo personaggio, dunque? Perché un tal fascino? Scoviamone le ragioni…

“Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui”. Un ribelle dunque, mosso da una grande forza di volontà, superiore “forse a tutti d’ardire e di costanza”. Sono proprio quest’ardire e questa costanza a muovere la sua volontà, e la volontà di un carattere dominante non può che essere di dominare: “ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra”.

Se, come afferma a buon diritto Battaglia, l’Innominato è, al pari della Monaca di Monza, un “fenomeno” della psicologia umana, di estrema ermeticità e per tal motivo di estrema modernità, riscontriamo però in lui un carattere perfettamente antitetico, quasi complementare, a quello di Gertrude stessa, l’uno lupo, pecora l’altra, l’uno soverchiatore, l’altra soverchiata… E in tutto ciò i due, sembrerà strano, paiono avvolte fondersi e immedesimarsi in un unico destino…

La Monaca è priva di volontà e carattere, dunque viene e verrà sempre sfruttata e involontariamente influenzata; l’Innominato invece ne ha fin troppa di volontà, ma la sua è una labile potenza, guadagnata a suon di scelleratezze, il più delle volte commissionate a lui da terzi, potenti anch’essi, vogliosi di vendetta o di riscatto.
E perché questa sarebbe una labile potenza? Perché destinata a svanire, quando nessuno più dovesse aver bisogno dei suoi uffizi, il che risulta totalmente impossibile, oppure quando il nostro stesso malandrino si dovesse rifiutare di compiere più delitti e malefatte.
Gertrude e l’Innominato, non sono malvagi di per sé, il loro male non è altro che il riflesso del volere malvagio di terzi. Ecco il punto d’incontro tra i due, la grande differenza sta nella grande chiaroveggenza che lo scellerato “senzanome” ha della propria vita e delle proprie scelte, perché lui sì che è capace di scegliere, di seguire la propria volontà, e per questo è capace anche di cambiare…

Il male non è nella genetica del personaggio, non è in lui radicato, ma è in lui sorto solo in un secondo momento, quando, all’affacciarsi al mondo, ha potuto amaramente costatare quanti e troppi mali affliggano il mondo stesso: “Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente”.
Osservando i tiranni “tiranneggiare” spietatamente, costatando quanto però in tal modo essi siano rispettati, venerati e temuti, l’Innominato, giovane e dunque ancor più propenso a sentirsi “padrone del mondo”, non può far altro che ritenere indispensabile uniformarsi al male pur di non confondersi con l’“inutile” massa, pur di non cadere esso stesso sotto le grinfie di altri, peggiori e tiranni. Il suo far del male non è sistematico, non è per lui del tutto appagante, anzi non lo sarebbe per nulla se non fosse per quel po’ d’autorità che gli viene purtroppo assicurata. Egli entra, forse volontariamente forse inconsciamente, in quell’atroce catena in cui un male tira l’altro, un delitto segue l’altro, quasi a voler cancellare le prove del delitto passato…

Ma il suo agire non è sempre e unicamente volto al male, e in tal caso emerge qualche traccia superstite della sua anima più nascosta, volontariamente repressa: “Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; o, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito era stato benedetto un momento (…)”. Non è certo questo il modo migliore per ottenere giustizia, ma di sicuro è il più rapido ed efficace. Guadagnarsi l’appoggio da un uomo così potente, quale l’Innominato è considerato, un privilegio, una benedizione, poiché la sua fama supera di gran lunga quella di qualunque altra forza, sia pubblica sia privata.
Da tutto ciò potremmo dedurre che il malandrino, in fin dei conti, pur macchiandosi d’innumerevoli delitti, abbia raggiunto la propria sospirata realizzazione. Il suo scopo era quello d’assicurarsi grandezza e di primeggiare?! Desiderio esaudito: il suo nome è associato ormai da tutti a una grandezza paurosa, “il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso”.
E grandezza, se pur diversa, è qui quella del Manzoni il quale, avvolgendo in un “non so che” di misterioso e indeterminato le atrocità compiute dal suo personaggio, riesce nell’impresa di trasmettere realmente al lettore quel senso di “grandezza paurosa” avvertito da popoli vicini e lontani al sol pensiero della possibile venuta dell’Innominato stesso, il lettore risulta coinvolto nella narrazione, vi entra quale comparsa silenziosa e attonita allo svolgersi degli eventi.

E, come per la Monaca di Monza, anche qui il ritratto fornito dall’autore non funge altro che da “specchio dell’anima” del personaggio: “Era grande, bruno, calvo (…)”, l’Innominato non era “alto”, bensì “grande”, un aggettivo non propriamente fisico, quanto più morale, grande come la “grandezza paurosa” da lui suscitata nella gente, o anche, – perché no?! –, indizio di una recondita grandezza d’animo. La canizie e il viso rugoso, segni di una precoce vecchiaia, di una vita non al meglio vissuta… La “durezza risentita dei lineamenti” segno di una volontà risoluta…
E infine il “lampeggiar sinistro, ma vivo degli occhi”, segno di un’anima si macchiata, ma ancor giovane, e dunque pronta a rinascere per rincominciare…. E l’Innominato vuole ricominciare…

“Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze”, ancor più alimentata dall’indeterminabilità dell’avvenire: “Invecchiare, morire! E poi?”. Quella stessa morte che, al momento degli scontri con i nemici, soleva animare il suo animo, ora, “nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina”.
La morte da lui temuta non è causata da un “avversario mortale”, essa “veniva sola, nasceva di dentro”. A ciò si unisce “l’idea confusa, ma terribile, di un giudizio individuale”, per poi giungere, con un crescendo emozionante racchiuso in men di una pagina, all’aperta constatazione della presenza di Dio: “gli pareva sentirlo gridare dentro di sè: Io sono peró”.

Il Manzoni ha volutamente evidenziato con chiarezza questi tre graduali momenti d’ascensione morale; timore per morte e giudizio individuale potrebbero sorgere in ciascuno di noi, indipendentemente da specifiche credenze religiose, ma sono il primo e fondamentale passo per giungere alla redenzione finale, specificatamente religiosa: l’aperto e pauroso riconoscimento di qualcosa che è, esiste, al di fuori di noi.
E, presa coscienza di ciò, la conversione dell’Innominato è di fatto già segnata, è potenzialmente già avvenuta, ancor prima dell’avvento di Lucia. Egli si prende carico dell’impresa a lui commissionata da Don Rodrigo sperando in tal modo di soffocare questi nuovi pensieri, queste nuove paure, ignaro che per lui si prospetterà l’incontro con una donna che non farà altro che aumentare ancor di più le proprie perplessità e la propria voglia di redenzione.
Pentitosi della parola data, l’Innominato attende con “inquietudine” l’arrivo di Lucia, avverte in sé un “ribrezzo, direi quasi un terrore”, ribrezzo di tutti i mali da lui compiuti, ma terrore di cosa? Di certo non di una povera fanciulla… Terrore di aver ormai perduto le proprie antiche passioni, di aver perduto il proprio ardire e terrore di voler cambiare, perché sa che un cambiamento repentino comporterebbe di sicuro stupore e perplessità tra i suoi seguaci in primis, tra la gente comune poi, screditando la sua immagine di austero, potente, tiranno…
Vorrebbe abbandonare l’impresa ma un “no” autoimpostosi più per orgoglio che per una reale ragione lo distoglie dal buon proposito. Il malandrino è “affetto” da una “patologia” del tutto consequenziale al sorgere del proprio nuovo io interiore, “patologia” meglio definita come “rabbia di pentimento”, rabbia di non essere più se stesso: “(…) io domandar perdono? A una donna? (…) non son più uomo!”.

Una schiera di fantasmi del passato assale la mente dello sciagurato “senza nome” nella buia e tetra atmosfera di una notte che pare essere senza fine: la terza, decisiva, notte. Notte insonne di solitudine e amarezza…

La “solitudine” è di fatto stata l’unica che, per tanti anni, ha affiancato l’Innominato, chiuso nel suo castello, senza mai abbandonarlo; castello descritto dal Manzoni con una suggestione mista di poesia e irrealtà, avvolto in un’atmosfera quasi mitica, tetra e apocalittica. Il grande tiranno ha lì vissuto la propria intera esistenza al di sopra del mondo, solo e circondato unicamente da quei bravi suoi seguaci. E come la gente comune, scorgendo dal basso quel “castellaccio”, attonita, comprende l’enorme distanza che intercorre tra i due mondi, l’uno di potenti l’altro di “semplici mortali”, così anche l’Innominato, affacciandosi dal suo “nido insanguinato”, comprende quell’incolmabile distanza che mai permetterà lui di vivere una vita reale…

Ma “mai dire mai”: perché mai in un paesaggio così tetro, un bel mattino, non potrebbe giungere, come d’incanto, un magico spiraglio di luce?

Il ricordo perenne della povera Lucia giunta al castello la sera antecedente, il suo viso intimorito, sofferente e rincuorato solo dalla speranza dell’aiuto divino, l’aiuto di quel Dio che l’Innominato ormai da tempo ignora sistematicamente…
Ma ora colui che ha reale bisogno di essere rincuorato è proprio il nostro malandrino! Sembrerà strano, un potente, sempre pronto a sfide e omicidi, si è stancato della propria vita, di se stesso e vuole cambiare!
Passo difficile, molto difficile: l’Innominato entra in crisi…. Cancellare il passato? Impossibile. Redimersi? Sì, possibile, ma… il futuro? “E poi? che faró domani?(…) che faró doman l’altro? Che farò dopo doman l’altro? E la notte? La notte tornerà tra dodici ore!”.
E allora l’inizio di una serie di congetture… Già precedentemente esclusa l’ipotesi “suicidio”, poiché ignoto il reale destino dell’anima e paurosa l’idea di un corpo privo di vita, l’Innominato immagina una fuga “in paesi lontani, dove nessuno lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé”. Deve essere terribile riconoscere d’un tratto il proprio essere nell’essere di un criminale senza scrupoli, costatare amaramente l’immagine maligna diffusasi della propria persona, soprattutto se avvertiamo quanto tale immagine non appartenga ormai più a noi stessi…
L’Innominato non può fuggire! Non ha lo spirito “pressappochista” di quel Mattia Pascal insoddisfatto della propria esistenza, sommerso da debiti e delusioni, troppo debole per affrontarle da sé… L’Innominato è sì insoddisfatto, insoddisfatto anch’esso della sua miseria, ma non economica bensì morale. Perciò, per rinascere realmente deve prima affrontare un’impresa decisiva per la propria esistenza: deve veder nato quel nuovo “io” emergente, incaricato di soppiantare totalmente il vecchio…

Ed ecco il ricordo della frase pronunciata da Lucia: “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia”…
Qualche campana a festa, qualche spiraglio di luce, una moltitudine di gente allegra per le strade: il cardinal Federigo Borromeo è giunto in città! Quale combinazione migliore al favorire di una conversione?
La notte d’ombre e fantasmi lascia spazio a un’alba speciale, un’alba di quelle mai viste prima…
“Le montagne eran mezze velate di nebbia: il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola (…)”. Il tempo non è dei migliori, ma promette una bella giornata: il chiarore va “a poco a poco crescendo”, premette pian piano di discernere il paesaggio… È questo un chiarore divino, che invade a mano a mano l’anima dell’Innominato permettendogli di discernere chiaramente se stesso e la sua reale voglia di redenzione…

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Immagine in testata di wikimedia commons (licenza free to share)

Lidia Maria Giannini

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