L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità (II Stagione) – Ave, Caesar!
“Cesare! Grande conquistatore, senza dubbio. Ma a che prezzo? Con quante vittime? Quanti morti in Gallia, quanti villaggi rasi al suolo, con il totale sterminio degli abitanti? C’è chi ti assimila a un criminale di guerra...”.
La tunica bianca drappeggiata, il mantello di porpora, radi capelli bianchi, portamento eretto, quasi altezzoso; così gli apparve Cesare. Alto, di carnagione chiara, gli occhi penetranti.
Ramon non era più avvezzo a questo tipo d’incontri miracolosi, e rimase per un po’ di tempo sotto shock, in uno stato quasi confusionale. Cesare. Che cosa chiedergli? Non era un filosofo. O forse sì. Incuteva, in ogni caso, un certo timore, un’inquietudine difficile da superare. Forse fu proprio per questo che Ramon, per superare questo stato, per vincersi, partì in tono fortemente aggressivo:
“Cesare! Grande conquistatore, senza dubbio. Ma a che prezzo? Con quante vittime? Quanti morti in Gallia, quanti villaggi rasi al suolo, con il totale sterminio degli abitanti? C’è chi ti assimila a un criminale di guerra…”.
“Tu non puoi capire la storia se ragioni come un uomo moderno. Tu devi calarti nella mentalità della mia epoca. Di una società sostanzialmente agricola, basata sulla proprietà terriera, e su un’economia basata sulla schiavitù. E allora vedrai scomparire le categorie del buono e del cattivo, e ad esse sostituirsi quelle del più forte e del più debole. Che cosa hanno fatto i Galli a noi, quando erano più forti? Pensa a Brenno, e al sacco di Roma. All’uccisione dei senatori inermi. Al fatto che i Galli Senoni, partendo dalla Borgogna, si erano impossessati di tutta la zona del nord est d’Italia fino al Piceno. E, non ci fosse stata la resistenza della allora ancora potente Etruria, si sarebbero impossessati di tutta l’Italia del nord. Io, quasi quattro secoli dopo, ho fatto lo stesso, ma a parti invertite. Perché il più forte ero io.
Vedi Ramon, in quella società arcaica, parlo dei primi secoli della repubblica, proprio per co’ era fatta l’economia, si poneva continuamente il problema di avere nuove terre, di avere più schiavi; di potere fare fronte alle carestie, per non vedere morire di fame i propri bambini. Era la sopravvivenza stessa della patria. E dunque, a ogni primavera, gli anziani si riunivano, per decidere a chi, nell’incipiente estate, muovere guerra. Era un modo di vivere, un’ovvietà.
E va anche detto che le popolazioni galliche, assai mobili, il loro modo di fare la guerra era tutto fondato sulla cavalleria, rappresentavano una minaccia costante per i territori romani. Del resto, quelle stesse popolazioni, una volta da me vinte e soggiogate, furono le prime a romanizzarsi, a ricevere la cittadinanza romana e ad accettare le tradizioni di Roma”.
Ramon dovette ammettere dentro a se stesso che non aveva mai pensato la storia in quei termini. Preferì spostare il tiro, e cogliere quella straordinaria occasione per togliersi alcune curiosità. Chissà quanto era vera la tradizione, quanto erano affidabili i narrati degli storici, spesso ammantati di una patina di leggenda (Plutarco, Svetonio, Appiano…):
“La tua decisione più importante, quella che segnò definitivamente il nuovo corso della storia, sancendo da un lato l’inizio della guerra civile, ma, dall’altro, soprattutto, la fine della Repubblica, fu senza dubbio quella di mettersi apertamente contro il Senato, con quel famoso passaggio del Rubicone. Come la prendesti, Cesare, d’impulso, o in modo meditato e sofferente, o con il cuore pieno di incertezza?”.
“Vedi Ramon, a quella scelta io fui quasi costretto. Il Senato, e la classe senatoria, erano tutti dalla parte di Pompeo, e mi volevano a Roma inerte e disarmato. Temevo per la mia stessa vita, se fossi tornato a Roma come semplice cittadino, dopo che il Senato mi aveva apertamente negato la mia candidatura a console. D’altra parte io ero accampato presso Cervia, con le mie legioni, vittoriose nelle campagne di Gallia, mentre Pompeo non aveva in Italia che due legioni, e nel sud. Di fatto, era il Senato a essere disarmato, in quello scacchiere. Sì, hai intuito bene, fu una decisione sofferta. Schierai alcune coorti lungo il confine della “terra d’Italia”, lungo quel fiumiciattolo che, assieme all’Arno, definiva il territorio considerato romano. Temporeggiai qualche giorno. Del resto, potevo contare sulla fedeltà assoluta dei miei veterani, e sulla convenienza della gran massa degli altri, che mi avrebbero seguito ovunque, perché solo io potevo pagare loro quanto promesso per le campagne di Gallia. Non dovetti così dare alcuna spiegazione, né arringare i soldati. Dopo alcuni giorni d’inquietudine, capii che quel dado andava tratto, che non ci sarebbe più stata un’occasione così. E mossi le mie legioni lungo l’Adriatico”.
“Seguisti quindi la via del mare, Cesare, perché non la valle del Tevere?”.
“C’erano tre modi di andare a Roma, ragazzo. Potevo, sì, passare il Rubicone, nei pressi di Cesena, e seguire la valle del Tevere; ma il difetto maggiore era che la valle è sempre dominata, a destra e a sinistra, da montagne. E guai avere l’esercito dominato dall’alto, da un eventuale nemico che ti può vedere, mentre tu non lo vedi, e ti può sorprendere in qualsiasi momento.
C’era poi la Flaminia militaris, o Flaminia minor; questa, all’opposto, proprio per le ragioni che ho detto, tutta in altura, sul sommo del crinale: da Bologna a Brento, fino all’altopiano che oggi chiamate della balestra, e poi il passeggere, pian degli ossi, giù giù fino a Prato. La vostra “via degli dei”. Pensata dal console Flaminio proprio per essere sempre al sommo del crinale, in posizione dominante. Ma era gennaio, nel pieno dell’inverno. La Flaminia passava in alcuni punti i 1000 metri d’altitudine, voleva dire due metri di neve. Era una scelta impraticabile. Così seguire l’Adriatico era un po’ una scelta obbligata; e poi, per quella via, io speravo sinceramente di intercettare Pompeo, che aveva le sue poche truppe in Puglia. Perché in quel momento, morto Crasso a combattere i Parti, io sarei stato anche disposto a trattare.
Ma Pompeo decise in altro modo, e, accompagnato dalla maggior parte dei senatori a lui fedeli, anziché incontrarmi, lasciò l’Italia, per recuperare il grosso del suo esercito, nei Balcani”.
Nella mente di Ramon si affacciavano tante curiosità, la lunghissima guerra civile, prima contro Pompeo, poi contro i suoi figli e i pompeiani, in Spagna; la guerra d’Africa, la relazione con Cleopatra, il fascino della millenaria civiltà egiziana, le guerre contro Farnace e Giuba. Dove non era stato Cesare? Pensò. Dalla Britannia ai Balcani all’Africa alla Spagna, praticamente in tutto il mondo conosciuto… E tutte le riforme dell’epoca della dittatura, la moneta in oro, i quattro trionfi, uno del quali, per la prima volta, celebrato per una vittoria contro un romano… Le domande erano infinite; ma Ramon sapeva bene che l’effetto dell’Arcivernice era effimero, e il tempo ormai era poco. Si decise per una domanda forse banale, ma che toccava uno dei luoghi più famosi.
“Cesare, volevi davvero diventare re? Perché ti facevi chiamare ‘imperator’? Davvero dicesti, alle Idi di marzo, quella celeberrima frase, ‘tu quoque, Brute, fili mi’?”.
Cesare assunse uno sguardo torvo, quasi adombrato da quelle parole, che gli suonavano piene di ingenuità: “Ero ‘dictator’, ero il padrone di Roma. Avevo piena disponibilità dell’enorme erario. Capivo bene che ‘rex’ era una parola tabù, che risvegliava sentimenti pericolosi. Ma io ero già nella sostanza il padrone del mondo. Che farsene di una pura etichetta? Quanto a ‘imperator’, all’epoca non voleva dire affatto ‘imperatore’, ma semplicemente ‘generale vittorioso’. E chi più vittorioso di me? Solo Alessandro, oltre a me, non perse mai una guerra. Altri grandi condottieri hanno compiuto imprese memorabili; Annibale, Napoleone, … Ma, prima o poi, hanno perso. Nessuno ha mai sconfitto Cesare in campo aperto!”.
Qui la sua figura parve diventare più grande, parve dominare lo spazio, e stagliarsi nella storia. Un orgoglio infinito, l’idea fissa del paragone con Alessandro, che lo aveva tormentato tutta la vita.
“Non ho mai detto “‘tu quoque…’; mentre, come dice Shakespeare, la statua di Pompeo Magno per tutto quel tempo sudò freddo, io, al mio pupillo, parlai in greco, come d’uso a quei tempi tra i nobili romani. Dissi ‘kai su, téknon’: anche tu, figlio…”.
Le puntate precedenti:
– L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità [I Stagione], di Giulia Jaculli e Maurizio Matteuzzi
– L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità – II Stagione, di Giulia Jaculli e Maurizio Matteuzzi
– L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità – II Stagione “Di nuovo a casa”, di Maurizio Matteuzzi
– L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità – II Stagione. Ma possibile? , di Maurizio Matteuzzi
– L’Arcivernice: pensieri inattuali sulla modernità (II Stagione). I bacilli dell’imperativo categorico, di Giulia Jaculli
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Immagine in testata di Biografie online
Maurizio Matteuzzi