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Manzoni e la modernità di Gertrude

Pubblicato il: 13/06/2014 15:33:38 -


È tempo di esami: si propone la condivisione di un compito “Dalla lettura de I promessi sposi... alle riflessioni su Gertrude” di una giovane liceale.
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Gertrude, la Monaca di Monza, “il personaggio più moderno dei Promessi Sposi”, come ben afferma Battaglia. Ma perché definirlo “moderno”? Il Manzoni, con essa, si avventura in quella che potremmo considerare la sua maggiore “sfida”: indagare la psicologia contorta e ambigua, profonda ma ermetica, di un “burattino” nelle mani di abili “burattinai”. In ben pochi personaggi della letteratura italiana potremmo riscontrare un susseguirsi a tal punto totalizzante, un vortice così continuo e impetuoso di emozioni, stati d’animo, risentimenti, dati da una paura e insieme da una voglia di riscatto, quale quello presente nel conscio e nell’inconscio della giovane Gertrude. A essa il Manzoni dedica un’ampia attenzione, trattando la sua “tragedia” quasi come fosse una “storia nella storia”, anche se strettamente interrelata alla storia stessa.

Ma mentre nella narrazione “portante” l’autore pone se stesso quasi a collaboratore dei protagonisti, le loro vite divengono parte di un tutto dato dal mirabile progetto divino, dalla così detta provvidenza manzoniana; nell’imbattersi nel personaggio Gertrude Manzoni diviene d’un tratto sbigottito e disorientato. In essa, nella sua vita, nella sua storia passata e futura egli non riesce a scorgere alcun disegno provvidenziale, alcun destino roseo, felice, ma solo indecifrabili ombre di un oscuro e tristo passato, e di un ancora più oscuro e tristo animo, così profondo quanto incomprensibile. E più il Manzoni tenta d’indagare a fondo tali ombre, più queste divengono fitte, cupe, facendo lui comprendere quanto la sua impotenza sia, per una volta, incolmabile. Dunque, attratto ma allo stesso tempo atterrito dall’inusitato personaggio in cui si è imbattuto, l’autore decide di approcciarsi a esso con “delicatezza”, mostrando compassione per esso, non disprezzo, quasi a volersi conformare a quella delicatezza emotiva propria di persone estremamente fragili, quale lo è, per l’appunto, la giovane Monaca.

Sorprendente è il percorso narrativo messo in atto dal Manzoni: ancor prima di narrare storia e antecedenti della giovane egli, con una sapiente e non casuale descrizione fisica e comportamentale della donna, racchiusa in una pagina o poco meno, riesce a compendiare l’intera esistenza della sventurata.
All’incirca venticinquenne, la nostra Gertrude è dotata sì di bellezza, ma di una bellezza “sbattuta”, “sfiorita”, “scomposta”. Questo non può essere altro che il segno indelebile lasciato lei da circostanze non piacevoli, il segno di una giovinezza negata. E se, alla lettura, ci ricordassimo poi anche di quella credenza per cui, a bellezza esteriore, corrisponde bellezza interiore, in questi soli tre aggettivi potremmo cogliere non solo un apparente disfacimento fisico della giovane, ma anche un ben peggiore disfacimento morale. Il pallore della carnagione, le labbra d’un rosa sbiadito, sbiadito come la sua stessa esistenza… E poi il dolore trasmesso da quel continuo “raggrinzirsi” della fronte, quello stato d’inquietudine ravvisabile nel rapido muoversi dei neri sopraccigli, quegli occhi, neri anch’essi, talora in cerca di un nascondiglio, di pietà, di affetto, talora superbi, talora arcigni… Quello sguardo perso nel vuoto… Non è confacente a una monaca il suo portamento, spesso accompagnato da gesti bruschi e repentini, non è confacente a una monaca la sua “certa cura secolaresca” nel vestire, la “ciocchettina di neri capelli” lasciata appositamente ben in vista sulla tempia, il tutto segno di un’attitudine ribelle, di un rancore verso la sua condizione, di una grande ferocia interiore. Con un realismo senza precedenti, forza e debolezza convivono, perennemente in conflitto, in un solo personaggio. Moderno è l’animo di Gertrude, non tanto la sua storia, moderno è il Manzoni nel trattare di lei. E per dipanare il “groviglio della matassa morale” della giovane, per comprendere i suoi atteggiamenti più stravaganti, l’autore ricorre al narrare.

Gertrude è “la signora”, di nobili natali, ultima figlia del principe, identificato storicamente oggi in don Martino di Leyva; discendente di una grande famiglia spagnola, temuto e rispettato in Monza e dintorni, il principe padre, per mantenere intatto decoro e ricchezze della famiglia nelle sole mani del primogenito, predestina tutti i vari figli cadetti al chiostro. “La nostra infelice era ancor nascosta nel ventre della madre che la sua condizione era già irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi se sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva bisogno non del suo consenso, ma della sua presenza”. Sottesa è la critica dell’autore all’insulsa legge del maggiorascato, legge che offende la famiglia, preludio non di una famiglia ma di sole sofferenze: sofferenze per gli uni – i figli cadetti – costretti a seguire vocazioni inesistenti, sofferenze indirette per l’altro – il primogenito – poiché destinato a far soffrire anch’esso, in futuro, i propri stessi figli, destinato a “tormentarsi a tormentarli nella stessa maniera”.

Una fanciullezza alquanto singolare è, dunque, quella che si prospetta alla giovane Gertrude, una fanciullezza già segnata dal suo futuro, con bambole vestite da monaca, con lodi quali “che madre badessa!” e rimproveri del tenore di “tu sei una ragazzina […] queste maniere non ti convengono: quando sarai madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso”. I fanciulli sono puri, ingenui, facili da abbindolare, ed al principe è bastato tener presente ciò per rendere l’animo della figlia totalmente propenso al chiostro. Avvezzata fin dalla culla alla superbia e al primeggiare, al considerare la clausura la più alta vetta cui aspirare e il convento, l’unico vero luogo in cui poter comandare ed essere temuta e rispettata, Gertrude giunge nel monastero a soli sei anni. Orgogliosa del suo futuro roseo da madre badessa, occorre ben poco tempo perché essa si ricreda e comprenda i vincoli comportati da una tale scelta radicale. Più essa si vanta con le compagne del suo destino autorevole nel convento, più queste le aprono gli occhi verso un mondo fatto di palazzi, feste, balli, matrimoni… E la giovane, proprio perché fragile ma allo stesso tempo orgogliosa di sé, “Per non restare al di sotto di quelle sue compagne”, si convince che, dopo tutto, nessuno possa “metterle il velo in capo senza il suo consenso”. Ma quale consenso? La ragazza è priva di volontà, è priva di scelta, l’unico luogo in cui riesce a essere realmente padrona di se stessa è la sua intima interiorità, in cui essa da vita ad un mondo parallelo di illusioni, fatto di sfarzo e splendore, ma la sua vita è già segnata. Invidiosa più che mai verso le sue coetanee, giunge all’odio, espresso in “dispetti, sgarbatezze, motti pungenti”. Ma, come più volte detto, la giovane è debole e spesso, persa tra timori e desideri, si reca da quelle sue stesse compagne a tal punto disprezzate, in cerca di “benevolenza, consigli, coraggio”.

Vogliosa di godersi anch’essa la vita mondana e manifestata all’esterno una tale volontà, ecco l’esordire del “gioco” dei ricatti. Il mese che Gertrude deve trascorrere nella casa paterna diviene uno strazio: ignorata e isolata, è trattata come “una rea, come un’indegna”, non solo dal padre, ma dall’intera famiglia, servitori compresi. In cerca disperata di amore, d’affetto, la giovane s’invaghisce di un paggio di palazzo: questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Tutta colpa di una lettera e di una serva invadente: il principe padre scopre il tutto. Se Gertrude prima era confusa, vogliosa da una parte di godersi la vita, dall’altra intimorita dall’aspettativa paterna, ora lo è ancor più. È fatta rinchiudere dal principe in una stanza di palazzo, la sua sola compagnia è la stessa serva tanto odiata, e in più l’eco di una temibile punizione risuona nell’aria. Piena di vergogna, risentimento, tormentata dal ricordo di quei volti “seri, freddi, minacciosi” dei familiari, Gertrude trascorre “quattro o cinque lunghi giorni di prigionia”. La rabbia e “il desiderio prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole” prendono il sopravvento: pur di trovare nei parenti “degli amici”, la giovane si conviene di “scrivere al padre una lettera piena d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza, implorando il perdono, e mostrandosi indeterminatamente pronta a tutto ciò che potesse piacere a chi doveva accordarlo”.

Ed ecco il susseguirsi di una serie di “sì” infondati, la richiesta alla madre badessa, le risposte alle domande del prete, “sì” fondati unicamente sui paurosi occhi paterni, che “governano le sue mosse ed il suo volto come per mezzo di redini invisibili”. Non sopportando più lo strazio del dover assistere alle gioie mondane, “dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e ripentimenti si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, o un si tante volte detto; lo ripeté, e fu monaca per sempre”. E spontaneo risulta il paragone con Don Abbondio, il quale “non potendo schivare il pericolo, vi corse in contro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli”.

Gertrude non è malvagia, come ad esempio Don Rodrigo, per essere malvagi è necessaria quella volontà che nella giovane Monaca è del tutto assente. Gertrude è piuttosto debole, paurosa, come Don Abbondio, tenuta sotto scacco da chi è più forte di lei. Non è malvagia neppure quando, entrata nel monastero e, scoperta da una conversa la sua relazione con un certo Egidio, si dà al delitto. Come il padre, anch’essa risulta vittima di un’insulsa società, una società malata del giudizio altrui e dell’ “alta opinione” del titolo nobiliare.
La vocazione di Gertrude non è il chiostro, c’è poco da fare: ecco lo sfogo spesso pieno d’ira, di collera, nei confronti di chi le sta intorno, quella stessa ira e collera che avrebbe dovuto, avrebbe voluto, sfogare su padre e familiari. Il Manzoni prova per lei pietà, un’umana compassione; quasi come per consolarla, non di rado le si rivolge con diminutivi e aggettivi: “Gertrudina”, “la poveretta”, “l’innocentina”, “la sventurata”.
Ma in veste di giudice l’autore risulta ineccepibile: così come condanna a occhi chiusi la malvagità di Don Rodrigo e la vigliaccheria di Don Abbondio, allo stesso modo condanna anche la giovane Monaca. Certamente non esime da colpe familiari e monache, ma non li considera del tutto responsabili dell’accaduto. Se non ci fossero stati loro, infatti, sicuramente sarebbe stato qualcun’altro a prendersi gioco della giovane, per sua natura debole e facilmente manovrabile, e la sua storia avrebbe avuto un esito forse anche peggiore. “Quisque faber fortunae suae”, dunque è in primis Gertrude a essere responsabile del proprio destino.
È la natura della giovane la vera colpevole del “reato”, ciò che il Manzoni condanna. Da una parte la costrizione paterna avrebbe potuto, per assurdo, salvarla, offrendole un rifugio sicuro da tutti quei “malvagi” che si aggirano nel mondo, “lupi” ben nascosti ma pronti, al momento opportuno, a uscire allo scoperto e a catturare la loro preda…

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Immagine in testata di wikipedia (licenza free to share)

Lidia Maria Giannini

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