Insegnare al principe di Danimarca
C’è chi ha scritto che “Insegnare al principe di Danimarca” emoziona come tanti anni fa la “lettera” di Don Milani, ma questa è un’altra storia, ed è ambientata nelle periferie di Napoli. Fiorella Farinelli l’ha letta per Education 2.0. Il libro è di Carla Melazzini, curato da Cesare Moreno ed edito da Sellerio.
“Insegnare al principe di Danimarca”, uscito a giugno per Sellerio , è un libro che gli insegnanti farebbero bene a leggere. Ma non è scontato. A presentarlo, per il momento, non sono state riviste e siti che si occupano di scuola. Ne hanno scritto invece Repubblica, Internazionale, il sito di temi economici Sbilanciamoci, il quindicinale Rocca della Cittadella di Assisi. Ne scriverà anche Sapere, rivista di divulgazione scientifica, e siti e giornali di associazioni del volontariato sociale. Probabilmente prima o poi anche qualche testata “scolastica”, ma il ritardo fa pensare. Il fatto, curioso ma neanche tanto, è che qui si parla di educazione, e non di scuola. Non di discipline o di strumenti, ma di persone. E di una scommessa educativa che si può giocare solo destrutturando radicalmente l’apprendimento di tipo scolastico. Agli insegnanti di oggi può piacere? Chi scrive – l’insegnante di secondaria superiore Carla Melazzini, prestata per 11 anni a “Chance”, il progetto di recupero della scuola media per ragazzi napoletani che l’hanno abbandonata – sembra dubitarne. Fin dal titolo. “Un insegnante di media cultura e umanità è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane Amleto, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi… ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere i sentimenti di un adolescente di periferia che vive i tradimenti con l’intensità e la consequenzialità del principe di Danimarca?”. Già, quanti insegnanti sono disposti a cercare un rapporto profondo con le periferie della città e con le periferie dell’animo degli adolescenti “per stabilire con loro un dialogo educativo e di vita”? Non molti, si direbbe, guardando ai numeri del fallimento scolastico precoce nelle metropoli meridionali. Non nei quartieri degradati della Napoli un tempo industriale e operaia, oggi ridotti da una disastrosa deindustrializzazione a teatro di guerra di bande criminali. Eppure è da lì che bisogna passare quando gli studenti il bisogno di imparare l’hanno perso, bruciato da frustrazioni e povertà, insidiato dalla prossimità con la violenza e le brutalità in famiglia e per strada, frustrato da una scuola che “gli parla sopra”, da “un’istruzione imposta, che non buca la superficie”, da un’istituzione che non sa fare altro che bocciarli. Una volta, e poi ancora un’altra. Provare a tirarli fuori si può, ma le storie di formazione – e l’“apprendistato” di un gruppo di insegnanti che il metodo se lo inventano passo passo – descrivono passaggi tormentati e difficili. Melazzini scrive parole asciutte, senza retorica e senza indulgenze. Lo sguardo antropologico, a tratti psicoanalitico, svela verità sgradevoli e lontane dalle rassicuranti analisi della sociologia dell’educazione. La povertà che è anche dipendenza, e attaccamento ai suoi “vantaggi secondari”. Le mamme spesso oscuramente ostili a successi scolastici che potrebbero costringerle a prender atto dei propri fallimenti. Tanti ragazzi tentati di uscire dalla fragilità con l’affiliazione a un “Sistema” che, prima ancora che soldi e moto costose, garantisce il “rispetto”. Tante ragazze (40 gravidanze su 600 allievi passati da Chance) strette tra il modello femminile di mamme, nonne, bisnonne e quello che l’istruzione promette, un lavoro onesto, l’autonomia dai maschi di famiglia, la libertà di scegliere un’altra via. “Solo lentamente ci siamo resi conto di quanto la nostra scuola, proprio perché accogliente, potesse essere percepita come pericolosa, aprendo prospettive di relazione e di vita sentite come inaccessibili”. Eppure ci sono anche i successi, sostenuti da metodi didattici che bisognerebbe usare anche con studenti che non sono gli “spostati” di Barre, Scampia, Ponticelli. Quelli per esempio dei bienni dei tecnici e professionali di periferia, da cui Melazzini proviene. Lucide ed esemplari le pagine sull’insegnamento dell’italiano. Dal chiasso alla parola. Dai gesti e dalle urla al bisogno di una lingua capace di mettere ordine nel caos delle emozioni. Dalle grafie smozzicate di un’alfabetizzazione scadente ai miracoli di correttezza e nitore restituiti dagli schermi del computer. Dall’incapacità di controllarsi alla capacità di misurarsi con il clima e le regole degli esami finali. Tutto dev’essere conquistato poco alla volta, tra progressi e ricadute . Anche se c’è chi ha scritto che “il principe di Danimarca” emoziona come tanti anni fa la “lettera” di Don Milani una professoressa, non siamo in quella canonica in cui le differenze di classe sembravano spiegare tutto e in cui le 1000 o 2000 parole per riuscire nella scuola e nella vita erano un obiettivo forte e condiviso. Insegnare è difficile, non solo nelle periferie napoletane, e non si può senza educare. E a educare non si riesce se non si costruisce un dialogo “autentico”. Anche così però non tutti arrivano in porto. E allora si impara a ridimensionare “l’onnipotenza pedagogica, l’idea che basti insegnare in modo efficace e tutto si risolve”. Si torna a pensare che “finché non si opera un cambiamento di contesto è difficile il cambiamento individuale” … “abbiamo imparato a dire che un compito viene affrontato solo quando è psichicamente sostenibile”.
Storie di formazione che dicono molto anche a chi l’insegnamento non lo svolge in contesti così estremi. Eppure dopo 11 anni di esperienza, molte elaborazioni utili e molti risultati promettenti, Chance non c’è più, essendosi una dopo l’alta defilata ogni istituzione locale e nazionale che l’avevano resa possibile. Anche Carla Melazzini se ne è andata per sempre, nel 2009. Una mini-Chance è tornata però a vivere, per l’impegno del “maestro di strada” Cesare Moreno e con il supporto economico di Fondazioni private.
Fiorella Farinelli