DL36 intervista a Valentina Aprea
articoli correlati
Il Decreto 36 è in dirittura d’arrivo. La discussione in Senato si è conclusa e il testo, modificato in più parti da numerosi emendamenti, è arrivato alla Camera. L’iter di conversione in legge si concluderà entro il 29 giugno. La discussione sui contenuti – se prevalgono le luci o le ombre, se e su quali temi si tratta di un’occasione perduta o viceversa di un provvedimento capace di migliorare non solo la qualità professionale ma anche l’attrattività del lavoro nella scuola per i migliori laureati – si dovrà discutere di sicuro ancora a lungo, anche fuori dalle aule parlamentari. Questa intervista alla senatrice Valentina Aprea, realizzata il 20 giugno quando su alcuni punti non si era ancora approdati a soluzioni definitive, è comunque un contributo molto utile per un approfondimento della questione. La senatrice Valentina Aprea è componente autorevole della Commissione Cultura del Senato e responsabile scuola di Forza Italia, è stata anni fa promotrice di un disegno di legge che, tra l’altro, delineava una riforma dello stato giuridico degli insegnanti, proposta che fu approvata alla Camera anche da altre forze politiche, tra cui il PD, e che poi fu lasciata cadere al Senato. Ringraziamo la senatrice per la disponibilità a rispondere alle nostre domande.
D. Molti si aspettavano che il Decreto, in quanto attuativo di un programma PNRR che fa riferimento anche al superamento di una progressione retributiva basata solo sull’anzianità di servizio, aprisse la strada a una nuova carriera docente capace di riconoscere sia le differenza di qualità e impegno professionale dei docenti che l’articolazione delle funzioni e dei profili necessari all’ attuazione dell’autonomia. Che bilancio si può fare della discussione parlamentare in proposito, e delle soluzioni che si prefigurano?
R. Nella sua versione originaria il Decreto in verità non presentava aperture in questa direzione. Il ministro Bianchi, che pure si era più volte pronunciato in questo senso, ha sostenuto in modo assai determinato che l’impegno che ci chiede il PNRR riguarda solo la soluzione dei problemi relativi al reclutamento e un forte investimento sulla formazione, sia iniziale che continua, degli insegnanti. In effetti la prevista incentivazione alla formazione continua è solo un una tantum, in quanto tale senza impatti sulla carriera. Gli emendamenti presentati da diversi partiti, per lo più del centrodestra, che ipotizzavano una carriera docente strutturata su più livelli, non sono stati recepiti, e anche il tentativo che mi ha visto partecipe di far diventare l’incentivo un dispositivo di passaggio anticipato alla posizione stipendiale successiva, che certo non prefigurerebbe di per sé un’altra carriera ma potrebbe essere un passo avanti, ha incontrato non pochi ostacoli. E’ una vecchia storia, sappiamo tutti da dove vengono le contrarietà che da anni impediscono ogni evoluzione positiva in questa direzione, sebbene sia certo che anche per l’assenza di progressioni di carriera diverse dai meccanismi automatici e uguali per tutti dell’anzianità la professione docente ha perso molta della sua capacità di attrazione per chi, in una professione, vuole anche crescere in competenza, responsabilità, retribuzione. Un parere negativo, questa volta, sembra essere venuto anche dal ministero dell’economia. Da parte mia ho cercato almeno, e ci sono riuscita, di includere tra le finalità della Scuola di Alta Formazione, oltre alla priorità della formazione sulle nuove tecnologie e sul loro utilizzo nella didattica, il digitale, il Coding, il superamento della lezione frontale eccetera, (il profilo professionale dei docenti della secondaria cui fanno riferimento le linee ministeriali va superato, è in gran parte roba del secolo scorso), anche percorsi formativi indirizzati alla qualificazione per funzioni di staff, di coordinamento didattico, di progettazione, di leadership condivisa. Sono competenze strategiche per l’autonomia scolastica ed è decisivo che siano di esplicito e stringente riferimento anche per la formazione universitaria, le prove di concorso, l’anno di prova, tutto il percorso di formazione, reclutamento, sviluppo delle competenze attraverso la formazione continua. Ma certo, ancora una volta, si tratta di un’occasione perduta.
D. Anche sulla parte più valida del Decreto, quella sulla formazione iniziale abilitante, ci sono stati tanti emendamenti. Quali erano i problemi e come li avete risolti ?
R. Devo premettere che, oltre a punti specifici che il testo originario sottovalutava o su cui presentavano soluzioni davvero pasticciate (insegnanti di sostegno, delle paritarie e dell’IeFp eccetera), le difficoltà sono venute anche dal problema più generale di un testo normativo che, come succede spesso, entra troppo nel merito delle decisioni amministrative. Il parlamento un po’ subisce un po’ è complice del vizio, che appartiene prima di tutto ai ministeriali che scrivono i testi, di affidare alla legge uno spazio che compete ad altri attori. Una norma che entri troppo nei dettagli operativi non va bene, rischia di essere una gabbia, di diventare obsoleta in poco tempo, di essere condizionata dalla paura dei ricorsi di chi dovrà attuarla. Ma c’è, contemporaneamente, anche il rischio di scrivere le cose in modo così vago od oscuro che, alla prova dei fatti, si può presentare la possibilità di attuazioni che tradiscono lo spirito della legge. Il lavoro di correzione e integrazione della parte relativa alla formazione iniziale e al reclutamento, a regime e per la fase di transizione, ha prodotto comunque diversi buoni risultati, e il giudizio è in gran parte positivo. Il mio impegno personale si è concentrato principalmente sulla definizione di un percorso abilitante alla professione concentrato in non più di 5 anni, un obiettivo però non condiviso da chi, prima e dopo la Buona Scuola, resta affezionato al modello dell’abilitazione aggiuntiva e successiva alla laurea quinquennale, dentro cui preoccupazioni legittime sull’appropriatezza del curricolo convivono con le contrarietà di parte del mondo accademico a un percorso integrato tra cultura e professione, preparazione teorica e apprendimento in contesti operativi. Siamo riusciti a tenere il punto sul percorso integrato e non cumulativo ( che, come si è visto con i 24 CFU, dà anche luogo a un spregiudicato mercato dei crediti formativi ), grazie alla svolta culturale e politica fatta di recente dal ministero dell’università sulle lauree abilitanti. Avrei però preferito che si prevedesse esplicitamente che, per chi matura precocemente la vocazione all’insegnamento, parte dei 60 CFU professionali possano essere integrati anche nel percorso della laurea triennale. Spero che resti quel “di norma” che ho proposto di aggiungere dove si dice che la parte professionale si integra solo una volta conseguita la laurea triennale, e spero che per questa via restino spazi a un’utile flessibilizzazione dei percorsi, anche per evitare che il carico dei 60 crediti, se concentrato solo sui due ultimi anni del percorso, finisca per allungarlo nei fatti perché la maggior parte degli studenti non ce la fa e va fuori corso. Va bene, comunque, che almeno per le nuove generazioni di insegnanti, non ci sia più lo scandalo di un ingresso nel lavoro docente senza nessuna preparazione professionale ( sono centinaia di migliaia gli iscritti alle graduatorie senza abilitazione ), che non si possa accedere ai concorsi se non si è abilitati, che il lavoro docente sia punteggiato ad ogni passaggio da prove e da valutazioni fino all’immissione in ruolo ( e poi anche dopo, se prima o poi si riuscirà a introdurre una carriera per meriti, anche e non solo formativi, e non solo per anzianità ). In questo quadro, si sono dovuti risolvere alcuni problemi scottanti relativi non solo ai precari “storici”, un tema dove è fortissima la pressione per mantenere anche a regime la logica del doppio canale, e ad alcune categorie di personale per le quali non è ipotizzabile pretendere l’acquisizione dei 60 CFU come condizione di accesso e di stabilizzazione in un lavoro che già fanno. Ciò vale per gli insegnanti di sostegno, ammessi ai concorsi anche in base alla sola specializzazione; per la riserva di posti per tre cicli di formazione per gli insegnanti delle paritarie ( che sono state fin qui penalizzate dall’assenza dei concorsi perché non possono assumere, in base ai criteri per ottenere l’autorizzazione, se non insegnanti abilitati ) e per quelli dell’IeFP ; per i precari in servizio da tre anni, a cui di CFU ne bastano 30, se negli ultimi cinque anni ne hanno fatto almeno uno coerente con la classe di concorso per cui si candidano ( qui è certo poco plausibile che, anche se titolari di un contratto di sola “supplenza”, i vincitori di concorso possano ricevere un giudizio negativo sul loro anno di prova da un comitato di valutazione ). C’è una soluzione anche per chi è già in possesso dei 24 CFU previsti fino a questo momento. Si tratta, insomma di adattamenti alla realtà concreta della norma, che possono essere più o meno convincenti, ma che sono in qualche misura obbligati per dare una qualche soluzione alle situazioni di fatto che si sono fin qui determinate. Ma lo sforzo di un maggior rigore, finalizzato a una migliore qualità professionale è stato fatto, e questo è importante.
D. Mi rendo conto che in un’intervista per telefono non si possa dare conto, e nei dettagli, di tutto il lavoro fatto e su ciascuna delle questioni oggetto della discussione. Vuole aggiungere comunque qualcosa su altri punti di particolare interesse?
R. E’ stato utile, tra i tanti temi, anche superare in qualche modo il pasticcio delle prove concorsuali “a crocette”. Sarebbe bastato scrivere che il modello Brunetta per la scuola non vale, si sono invece scelte formule meno chiare, ma la sostanza c’è con il riferimento a test a risposta multipla o altri tipi di prova, su cui si deciderà successivamente. Aggiungo che ho fatto ribadire la necessità di rivedere le classi di concorso, non nel senso di moltiplicarle come è stato purtroppo fatto in passato, ma di accorparle in direzione dell’interdisciplinarietà e di una più intelligente gestione del personale, anche in ordine alle supplenze. Tra i temi di maggior impegno c’è stato quello del reperimento delle risorse necessarie per la formazione continua da fondi appropriati, eliminando il discutibile ricorso all’impopolare taglio alla Carta Docente e a una diminuzione degli organici connessa con il calo demografico. Anche qui non è stato facile, ma il risultato c’è, e si può solo migliorarlo. Riformare significa anche misurarsi con soluzioni concrete e fattibili, il rischio è che non tutto quello a cui si approda sia completamente convincente, ma l’importante è che i compromessi che si raggiungono non distorcano la direzione di marcia dell’ innovazione. La mia intenzione è sempre questa.
Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’Osservatorio nazionale per l'Integrazione degli alunni stranieri