L’autonomia è ancora importante per la scuola?
A giudicare da quel che si è letto nei programmi dei partiti presentati alle recenti elezioni si direbbe che l’autonomia ha fatto la sua scomparsa dall’orizzonte del cambiamento della scuola italiana. Come è stato più volte notato fin dalla sua introduzione si è trattato di una riforma dimezzata, che mentre vede la scuola sempre più impegnata a svolgere un ruolo per il proprio territorio e per una serie di richieste sul piano economico e sociale, ha sempre meno strumenti per corrispondervi, diversificando la propria offerta, perché soggetta a vincoli di tipo organizzativo e gestionale che impongono comportamenti omogenei su tutto il territorio nazionale.
E’ evidente che da un lato come ci ricordava don Milani non si possono fare parti uguali tra soggetti diversi, dall’altro anche i processi di alfabetizzazione diffusi in una società sempre più tecnologica richiedono notevole flessibilità e questo comporta una organizzazione del servizio scolastico capace di rispondere ad esigenze diverse e la formazione di operatori che sappiano penetrare i processi di apprendimento piuttosto che somministrare gli stessi contenuti forniti dall’applicazione passiva delle discipline di insegnamento.
Queste due tendenze sono da tempo in conflitto fra di loro, senza che vi sia la volontà di risolvere il problema, ne da parte della politica, che ha paura di prendere posizione per evitare di acuire i malcontenti in un settore dove si investe poco e si fanno promesse che vengono puntualmente disattese, ne degli stessi docenti, dove la parola d’ordine espressa dai sindacati è stabilizzazione dei posti, magari con qualche disagio dovuto agli algoritmi di assegnazione, da Bolzano a Palermo, pur di non creare scossoni nelle carriere e nei salari, che vengono indicati solo attraverso la contrattazione, e non sentir parlare di valutazione.
Una scuola autonoma è quella che può decidere della propria offerta con il rischio dei risultati, non solo per effetto delle prove INVALSI, ma anche della copertura delle situazioni di fragilità e di dispersione, dei rapporti con il mondo del lavoro, delle relazioni internazionali, ecc. Nell’ultimo decennio del secolo scorso era partito un grande movimento innovatore, sia interno, da parte di dirigenti e docenti, sia esterno, insieme alle università, al mondo delle aziende e degli enti territoriali, che culminava in progetti di sperimentazione, che ebbero un impatto dirompente sulla burocrazia ministeriale e costrinsero il ministero stesso a scendere sullo stesso terreno con le così dette sperimentazioni assistite.
Da qui trassero origine alcune riforme di struttura, soprattutto nel primo ciclo, mentre per il secondo grado, dove massima è stata l’espansione delle sperimentazioni, con la riforma Gelmini-Tremonti furono tolti tutti i progetti e le loro innovazioni portando ad approvazione una legge di riforma che oltre ad aver frustrato una grande esperienza innovativa ha introdotto fragorosi tagli sul piano finanziario. Nel medesimo tempo la stessa parte politica pensò all’autonomia scolastica come privatizzazione, trasformando le scuole in fondazioni; un contentino per offrirne un’immagine a misura di cliente sulla base della Carta dei Servizi, che si diffuse anche in altri servizi pubblici. La visione aziendalistica però non ha incontrato il favore dell’opinione pubblica, anche se era sostenuta dal mondo imprenditoriale e tutto tornò alla consueta routine ministeriale.
Il centro-sinistra, sulla scorta della riforma del titolo quinto della Costituzione, voleva mantenere la funzione pubblica, ma con una maggiore autonomia sul piano didattico e organizzativo, lasciando al potere centrale il compito dell’indirizzo politico e della valutazione di sistema, mentre ai territori, in un’ottica di progressivo decentramento delle competenze, la possibilità di programmare e gestire le scuole in un rapporto stretto con le regioni e gli enti locali. Anche questa tendenza fu contrastata oltre che dal ministero, che non ha collaborato all’applicazione del suddetto titolo quinto, dal mondo degli stessi enti locali che vedevano sul territorio nuove realtà concorrenti nell’azione di governo. L’autonomia scolastica che fu inserita nella Costituzione forniva una visione di scuola più simile al comune e delle associazioni di scuole autonome come ANCI scolastici.
Così ne da una parte ne dall’altra l’autonomia ebbe la possibilità di progredire realmente; solo con la riforma della pubblica amministrazione di fine secolo scorso si ebbe il conferimento della personalità giuridica ad ogni istituto e la qualifica dirigenziale ai presidi, ma subito si trovarono vincoli sul piano dei numeri necessari a fondare tale requisito imposti dal governo centrale, quando la competenza di programmazione della rete scolastica avrebbe dovuto essere trasferita alle regioni. La riorganizzazione degli enti locali andava in un senso, le unioni dei comuni definite dal basso con referendum e processi partecipativi e quella delle scuole in un altro, le dimensioni ottimali imposte dall’alto con provvedimenti dell’amministrazione centrale, e ancora oggi non c’è raccordo tra i due versanti.
E’ bello ricordare come ai tempi della normativa che ha legittimato la partecipazione fosse la Repubblica (come dice la Costituzione) e non lo Stato, prerepubblicano, a istituire le scuole, ma ci si era illusi che fosse la società a gestirle. Fin da quei tempi però furono introdotte delle contromisure affinché la presenza degli esterni negli organismi collegiali si esaurisse con le famiglie e gli studenti del singolo istituto; forti limitazioni furono imposte al distretto scolastico che voleva le scuole aperte al territorio, mentre al provveditore agli studi rimase il controllo sui bilanci.
Oggi si sa qual è il livello di motivazione nelle elezioni dei rappresentanti nei consigli di classe e di istituto, ma ogni anno arriva una circolare che ci fa constatare la diserzione sempre maggiore dei potenziali interessati, ma non si interviene nel riformare tali organismi sul piano dei poteri e degli spazi concreti di azione, il che avrebbe consentito di far fare un passo in avanti all’autonomia.
La direzione nazionale e la gestione locale erano i caratteri che più ci facevano assomigliare agli altri Paesi, in un periodo nel quale un po’ in tutta Europa avanzavano forti azioni di decentramento delle competenze istituzionali, mentre da noi sono rimaste riforme incomplete con la sovrapposizione di normative che progressivamente ne esaurivano le potenzialità, pur di non mettere in discussione il potere centralistico, anche se questo creava disservizi, soprattutto nella gestione del personale, perché non venivano adeguatamente considerate le esigenze dei vari territori, e da qui anche i parametri di chiusura delle scuole che in tempi di decremento demografico fanno intervenire i tribunali in difesa delle famiglie e degli enti territoriali. Ed è per questo che alcune regioni cercano di intervenire sull’assegnazione del personale, che la Corte Costituzionale già nel 2004 aveva dichiarato possibile, ma per ora senza risultato.
E’ inutile ribadire che un po’ in tutta Europa la gestione amministrativa e del personale viene decentrata ed attribuita in diversi casi alle scuole autonome. Sono provvedimenti adottati soprattutto per ragioni di efficienza e di risparmio della spesa pubblica, mentre da noi si tratta di continuare ad esercitare un potere tra ministero e sindacati, che mette a rischio la distribuzione efficace delle risorse. Da più parti sono state avanzate proposte che in ragione dell’autonomia volevano stabilizzare gli organici di istituto, una parte dei quali sarebbero definiti dalle singole scuole, considerando ad esempio la necessità di far fronte a fenomeni di abbandono, o la realizzazione di progetti affini agli indirizzi o ai territori. In tale contesto sarebbe possibile sviluppare una serie di figure professionali (middle management) di cui più la scuola può diversificare la propria offerta e più si sente la necessità.
Si pensi come il PNRR avrebbe voluto, proprio in virtù dell’autonomia, poter agire sulla carriera e sugli incentivi economici dei docenti, mentre il governo italiano non è riuscito ad andare oltre al “docente esperto”, con caratteristiche alquanto incerte, messo nelle mani della contrattazione, che finirà come altre innovazioni del genere per esaminare solo l’aspetto istituzionale del profilo senza entrare nel merito della qualità delle prestazioni, che può fare veramente la differenza nel conseguimento dei risultati.
A parlare di autonomia è stata in tempi più recenti la legge 107, che però in sostanza ha reso possibile alle scuole soltanto aumentare le entrate finanziarie anche con l’intervento di privati e forme di defiscalizzazione dei contributi, ma le spese rimangono soggette a vincoli amministrativi. Quando quest’ultimo governo ha mostrato che l’autonomia era necessaria affinché digitale, territorio e didattica potessero andare insieme, forse non ha fatto in tempo a fornire adeguati supporti alle scuole nella progettazione e gestione dei finanziamenti, i quali anche per il generoso quanto insolito ammontare hanno procurato più che soddisfazione preoccupazioni soprattutto nei dirigenti scolastici per tutta la burocrazia necessaria.
Con questi ultimi provvedimenti si è introdotto un altro dispositivo: i “patti educativi territoriali”. Con essi vengono prefigurate attività che coinvolgono le scuole, gli enti locali e le associazioni del privato sociale, ma sappiamo bene sul piano gestionale quanto sarà difficile l’incontro tra le burocrazie scolastiche e comunali, per cui alla fine saranno le associazioni ad assumerne la gestione data la versatilità della loro struttura amministrativa e così finiranno per avere anche la responsabilità di carattere educativo.
Il suddetto titolo quinto prevedeva poi la definizione nazionale dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) per fare in modo che tutti i cittadini godessero degli stessi diritti per l’accesso al sistema scolastico; questi LEP andranno elaborati se si potranno applicare ad iniziative autonome e differenziate, da ricondurre ad unità, ma se il servizio rimane centralizzato risultano inutili, perché non si tratta di strumenti di perequazione sociale o territoriale.
Insomma, perché in queste elezioni non si è parlato di autonomia ? Le contraddizioni che abbiamo descritto hanno tolto ogni motivazione a far assumere alle scuole il potere e la responsabilità di lavorare per la cultura e per il territorio ? Forse che i suddetti patti hanno distribuito i carichi, facendo si che le scuole si limitino come al solito alla cultura lasciando il territorio al privato-sociale. Se non si può arrivare all’autonomia completa, meglio ancora una volta fermarsi a metà strada: in Italia si trova sempre una soluzione, sulle orme del Gattopardo.
Gian Carlo Sacchi Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.