La politica scolastica per la ripresa
Una ricerca SWG-Repubblica durata tutta la scorse estate ha coinvolto docenti, studenti e genitori sulla ripartenza della scuola. È stato messo un punto fermo sul ritorno nelle aule, lasciando alla didattica a distanza momenti di emergenza solo legati ai contagi. Si volta pagina, il computer che ha fatto la parte del leone negli ultimi due anni, deve essere dimenticato, soprattutto per il sostegno a un insegnamento che rimaneva trasmissivo e richiedeva un impegno che ha generato stress negli studenti, un sistema quasi forzoso di tutoraggio da parte dei genitori e un’inadeguatezza dei docenti a gestire in generale le tecnologie nel processo di apprendimento.
Andare verso il futuro è l’orientamento dei diversi interlocutori, affermando che la scuola è il bene più importante a disposizione del Paese. Non è la prima volta che vengono espressi giudizi di questo genere: c’è chi attribuisce la motivazione in questo caso al notevole periodo di chiusura ed al desiderio di ritornare, ma se inserito nel panorama istituzionale la scuola ha sempre occupato un posto di rilievo, da un lato perché tocca direttamente le famiglie sensibili alla crescita dei figli, dall’altro perché in diversi modi è inserita nelle dinamiche della formazione-lavoro.
La scuola in presenza ha avuto dunque un’approvazione pressochè unanime, anche oltre le limitazioni logistiche imposte dalla pandemia, per la ripresa delle relazioni umane tra i giovani e con i docenti; tuttavia, ad ascoltare gli intervistati su quello che si aspettano per il futuro non si ha l’impressione che sia come una ripresa da dove ci eravamo fermati: con brevi risposte fanno intravvedere richieste molto ampie e con prospettive diverse da ciò che la tradizione ci ha consegnato riguardo alla vita della scuola.
Più della metà degli studenti interpellati risponde infatti di volere attività fuori dall’aula, con lezioni pratiche, a intendere la frequentazione di altri luoghi, che oggi si potrebbero definire con una pluralità di ambienti di apprendimento, visti oltre che nelle aziende, nei diversi beni culturali, dello sport; in una parola una diversa modalità di rapportarsi con il territorio, che vada oltre un’organizzazione centrata sulle quattro mura e sull’alternarsi delle discipline, che oggi si è in grado di adottare in minima parte.
Ancora, si richiedono insegnanti più aggiornati, ai quali è riconosciuta la preparazione, ma anche la necessità che questa comprenda l’attualità, nonché l’ammodernamento dei saperi. C’è sicuramente un aspetto generazionale, soprattutto nell’uso delle tecnologie, ma ce n’è uno metodologico, che in parte deriva dalla formazione remota centrata sulla ‘consegna’ alle giovani generazioni della tradizione culturale. Intervenire dunque sulla formazione di base, perché sia inserita in un contesto di apprendimento e su quella in servizio, rendendola permanente, perché sia in grado di seguire il cambiamento, sono azioni prioritarie, che devono avere una ragione professionale e non limitarsi alla contrattazione sindacale. La richiesta di lavorare sulla contemporaneità è ancora oggi avversata da chi ritiene che la scuola non possa inseguire il rapido evolversi degli avvenimenti, ma debba mantenere un certo ‘distanziamento critico’. Ma nella società di internet non si tratta tanto di tenere a distanza le informazioni, già abbondantemente presenti nella rete, che arrivano senza mediazioni direttamente ai giovani, ma di privilegiare l’aspetto critico che non esime dal trattare contemporaneamente passato e presente, prevedendo percorsi formativi essenziali.
Mentre il giudizio del Paese sulla classe docente è piuttosto severo, gli stessi insegnanti chiedono novità per crescere a far crescere, strumenti e forme nuove di valutazione, metodologie innovative e software all’avanguardia e, nella scuola secondaria, la possibilità di dare più spazio agli aspetti educativi, senza tuttavia assumere ruoli tipicamente genitoriali. Tali richieste, alle quali si aggiunge la ristrutturazione degli edifici scolastici, non sono del tutto assenti nel nostro sistema, ma l’innovazione non può essere introdotta per circolari ministeriali o progetti calati dall’alto; essa richiede una cultura professionale che deve diffondersi potenziando la ricerca e la sperimentazione sui territori e l’implementazione delle buone pratiche per mezzo della documentazione, le cui modalità devono entrare a far parte della professionalità docente, e dallo scambio, non solo via web, di esperienze. Occorre riprendere i teacher center, di cui si parla nel decreto sull’autonomia: di ricerca, sperimentazione e sviluppo.
Infine va guardata con attenzione la volontà del PNRR di finanziare la costruzione di ‘scuole nuove’. Tale denominazione è stata coniata dalla ‘buona scuola’, ma di questa novità è rimasto ben poco. Ricerche in campo europeo incominciano ad aggregare materiale interessante che da noi potrebbe essere limitato a colmare le emergenze strutturali. Sarebbe interessante creare uno spazio di discussione con la partecipazione di scuole ed enti locali, perché venga migliorata la collaborazione tra pedagogia, architettura e governo del territorio, affinché la scuola, con il potenziamento delle tecnologie, diventi un civic center per le esigenze dell’apprendimento e della cittadinanza. Per fare ciò occorre che nei bandi per l’edilizia scolastica destinati agli enti territoriali possano essere inseriti progetti formativi elaborati da scuole con piena autonomia.
Gian Carlo Sacchi Esperto di politica scolastica. Ha fatto parte del Consiglio di amministrazione dell’INDIRE e ha fatto parte del comitato Scientifico della Regione Emilia Romagna per le esperienze di integrazione tra istruzione e formazione professionale.