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Fare Memoria e insegnare la Pace

Pubblicato il: 09/03/2022 06:00:04 -


L’articolo di Rita Bramante è arrivato in redazione alla vigilia dell’invasione  russa dell’Ucraina, che Putin chiama “operazione speciale”. Le manifestazioni dei giovani in tutte le capitali d’Europa hanno con immediatezza schierato i temi della pace come diga alla paranoia sanguinaria della guerra ed espresso volontà e impegno. Crediamo che tutto questo orrore debba essere ben presente al lavoro ed alla riflessione entro la scuola italiana, impegnata a educare cittadini europei finalmente costruttori di pace e a far sentire voce e condanna di questa rinnovata barbarie.
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La gente raramente vince le guerre, i governi raramente le perdono. La gente viene uccisa. I governi si trasformano e ricompongono, come teste di idra. Usano la bandiera prima per cellofanare la mente della gente e soffocare il pensiero, e poi come sudario cerimoniale, per avvolgere i cadaveri straziati dei loro morti volenterosi (…) Per favore. Per favore fermate subito la guerra. E’ morta abbastanza gente. I missili intelligenti non sono abbastanza intelligenti[1]. Le parole sulla guerra scritte vent’anni fa da Arundhati Roy sono più che mai attuali e in questi giorni avvertiamo visceralmente che tutti abbiamo il diritto e il dovere di credere in un futuro di Pace e di erigere la Pace a progetto di tutti, coniugando pensiero e azioni per la Pace.

Pace non significa solo assenza di guerra, ma misurarsi con i grandi temi della sostenibilità, della vulnerabilità, della capacità di resilienza e del capitale sociale e provare a declinare indici nuovi per una pagella etica del funzionamento delle nostre società.

La scienza ha provato che l’uomo è un animale pacifico e che l’aggressività non è scritta nel nostro DNA; è altresì anche scientificamente dimostrato che la violenza genera violenza e pertanto ogni sforzo umano va indirizzato a delegittimarne ogni forma, mettendo al bando la guerra e i suoi strumenti, risalendo alle cause che seminano il germe di molti conflitti e cercando soluzioni da mettere al servizio dello sviluppo di processi di pace.  “La stessa specie che ha inventato la guerra, ora può inventare la pace” – recita la Dichiarazione di Siviglia sulla violenza – e il movimento ‘Science for peace’ – nato nel 2008 per volontà di Umberto Veronesi –  è partito proprio da questo assunto per individuare tre obiettivi prioritari per perseguire e affermare la pace, obiettivi che vale la pena in questa sede richiamare. Primo fra tutti educare le nuove generazioni ai principi della pace, per avere in futuro popolazioni sensibili alla pace.

L’impegno di un team di esperti, formato da sociologi, filosofi e genetisti  e riunito con l’obiettivo di sfatare i miti sull’ineluttabilità della guerra nel destino dell’uomo, ha portato alla elaborazione di una Carta, un manifesto scientifico che è stato adattato per il mondo della scuola, come strumento educativo per diffondere tra i giovani e i giovanissimi una cultura di dialogo e di non violenza, dal nido alla scuola secondaria di secondo grado. La Carta Science for Peace è corredata da percorsi didattici multidisciplinari per diffondere una cultura di non violenza nelle scuole[2]. Consiste in un decalogo da tenere sempre a portata di mano per porre domande e animare la discussione, per sostenere pensieri e esaminare situazioni di vita quotidiana in classe. Per esempio per imparare a litigare, a utilizzare il conflitto come occasione di apprendimento e a non prendere mai la scorciatoia della violenza. Il grande antidoto a ogni forma di violenza è il dialogo e a scuola è possibile fare quotidianamente esercizi di pace.

Il secondo obiettivo consiste nel fare appello ai governanti per un programma di riduzione della spesa per gli armamenti e per il reinvestimento dei risparmi in cultura, scienza e ricerca; il terzo auspica l’attuazione di programmi per rimuovere le cause della guerra, come la fame nel mondo, la povertà assoluta, i fanatismi religiosi, l’analfabetismo, le risorse energetiche.

Nella comunità internazionale l’Europa unita può giocare un ruolo di peso in merito ai grandi temi dell’agenda politica globale, nella mediazione e nella risoluzione pacifica dei conflitti, e non soltanto nella governance dell’euro: centinaia di miliardi di euro all’anno (a tanto ammonta la spesa sostenuta dai 27 paesi dell’Unione per i 27 eserciti nazionali) potrebbero, secondo gli studi più seri, essere ridotti drasticamente, se si optasse per una politica estera integrata e per un esercito comune europeo con funzioni di peace keaping. Forse è giunto il momento di non accontentarsi più dell’Europa della bandiera, dei mercati, del PIL e dello spread, ma di credere e investire nel percorso di crescita di una comunità politica di diritti e di valori, che sappia liberare risorse notevoli per scopi socialmente utili.

Oggi la maggior parte degli europei non sa che cosa sia la guerra. Non l’ha vissuta di persona. La memoria del secondo conflitto mondiale è sparita. Il fatto che non abbiamo questa esperienza diretta ci impone di capire quale sia l’essenza della guerra. (…) La democrazia è un lavoro di tutti. Se la dai per scontata la metti in pericolo. (…) Grazie all’idea di Europa la mia generazione non ha conosciuto la guerra. Questo fatto straordinario è stato il risultato in grandissima parte di un progetto che alcuni disprezzano, l’Unione europea. Hegel ha scritto che l’unica cosa che si impara dalla storia è che dalla storia non si impara niente. Una frase tragica. Invece dobbiamo assolutamente imparare e non ripetere gli stessi errori. Questo mi angoscia. Non possiamo lasciare ai nostri figli e nipoti il mondo così come è adesso[3].

In astratto chi non afferma di essere contrario alla guerra, che la guerra è una follia, una catastrofe, un crimine contro l’umanità, è orrore, preoccupazione, angoscia, ma al principio astratto di un teorico “No alla guerra” corrispondono nella realtà tanti conflitti disseminati nel mondo, che portano con sé un impressionante sacrificio in vite umane. “Una sola famiglia distrutta dalla guerra è già troppo” è stato lo slogan prescelto per una delle Giornate del Rifugiato, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e celebrata ogni anno dal 2000 in tutto il mondo il 20 giugno. Una giornata in cui forse più che in altre si accendono i riflettori sulle difficili condizioni di vita di più di un milione di individui fuggiti o espulsi a causa della guerra, forzati a lasciare il proprio paese e la propria casa in cerca di asilo politico in un Paese accogliente.

La data simbolo è senza dubbio un modo per fare memoria, ma non è sufficiente. Come ha affermato Liliana Segre lo scorso 27 gennaio in occasione della celebrazione della Giornata della Memoria dell’Olocausto: Ogni volta che c’è il Giorno della Memoria c’è grande interesse, ma a mio modo di vedere è dal 28 gennaio in poi che bisogna ricordare; non può essere una giornata sola per nessuno, ma potete immaginare cosa voglia dire il Giorno della Memoria quando tutti i giorni sono il giorno della memoria per chi quella strada l’ha percorsa, per chi ha visto, per chi ha sentito, per chi ha fatto un passo dopo l’altro, una gamba davanti all’altra nella marcia della morte. Non c’è memoria senza storia; lo studio della storia va d’accordo con la memoria,  per questo la senatrice Segre si batte da tanti decenni perché lo studio di questa pagina di storia e il ricordo di tutto ciò che di indicibile è accaduto, venga conosciuto dalle giovani generazioni: Senza i giovani che conservano la memoria dovrei essere priva di speranza e dire che non è cambiato nulla da quei giorni; adesso che ho 91 anni, che mi trovo ancora a fronteggiare l’odio e che da due ho la scorta a causa di maledizioni e minacce, posso dire invece che la speranza c’è e vive proprio grazie ai giovani, ai ragazzi che ogni anno fanno memoria dell’olocausto.

In altri termini, ma esprimendo lo stesso concetto, si è espresso anche Papa Francesco in un tweet: Se perdiamo la memoria, annientiamo il futuro. L’anniversario dell’Olocausto, l’indicibile crudeltà che l’umanità scoprì 75 anni fa, sia un richiamo a fermarci, a stare in silenzio e fare memoria. Ci serve, per non diventare indifferenti.

Fare Memoria, dunque, e insegnare la Pace e i Diritti inalienabili dell’Uomo. All’opposto del nazionalismo, il patriottismo permette una fraternità aperta, particolarmente quando riconosce piena umanità allo straniero, al rifugiato, al migrante. Può portare in sé il sentimento d’inclusione della patria nella comunità umana, che è oggi comunità di destino di tutti gli esseri umani del pianeta[4]. Come recita il sottotitolo del pamphlet di Edgar Morin, dobbiamo trovare la strada per resistere alla crudeltà del mondo e reagire fermamente alla tendenza a richiuderci su dei “noi” etnici, nazionali, religiosi. Lavorare per un avvenire di pace e di giustizia – disse Teodoro Moneta, unico italiano premio Nobel per la Pace, nel suo discorso a Oslo più di un secolo fa – anche se fosse un’illusione, sarebbe però un’illusione così divina che darebbe senso alla vita.

 

 

[1] A. ROY, Guerra è pace, Guanda, 2002.

[2] https://www.scienceforpeace.it/cartaS4P/scopri-la-cartaS4P

[3] Paolo Lepri intervista Javier Cercas, Corriere della Sera, 26 febbraio 2022.

[4] E. MORIN, La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, EditriceAve, 2020.

Rita Bramante Già Dirigente scolastica, membro del Comitato Nazionale per l'apprendimento pratico della Musica e volontaria UNICEF.

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