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Equità ed efficacia sono in alternativa?

Pubblicato il: 25/11/2011 19:12:38 -


Equità ed efficacia sono in alternativa? È vero che nelle classi omogenee – per composizione sociale, livelli di apprendimento, nazionalità eccetera – si impara di più che in quelle che non lo sono?
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Il dubbio serpeggia, soprattutto tra i genitori. E anche le pressioni per assicurarsi non solo gli insegnanti ritenuti migliori ma anche ambienti scolastici – classi e sezioni – dello stesso livello, o anche più alto, del proprio ambiente sociale. Pressioni talora insistenti. Tant’è che ci sono istituti scolastici che, per tagliare la testa ai troppi tori, ricorrono alla dea bendata. Al sorteggio, o altre casualità che agevolino il rispetto di quella “equieterogeneità” indicata dalle norme, che vuole classi “mescolate”, e quindi il più possibile simili tra loro. Ma il problema resta. Tanti genitori, che magari non ammetterebbero mai apertamente di trovare sbagliato che nella scuola pubblica si debbano garantire a tutti le stesse chances – e che tuttavia fanno di tutto perché ai propri figli venga evitata la compagnia di ragazzi disabili, rom, stranieri o più banalmente di chi domani di sicuro non andrà al liceo – restano spesso poco convinti. Trovando alleanze, forse, dove non dovrebbero esserci.

Sul sito della Fondazione Agnelli è apparso in questi giorni uno studio che, utilizzando i risultati dei test Invalsi, rileva le correlazioni tra la composizione delle classi e gli esiti di apprendimento. Si tratta di prime classi di scuola media.

La scelta di questo settore scolastico deriva dalla sua evidente specificità sia rispetto alla secondaria superiore in cui sono le singole filiere a intercettare popolazioni scolastiche ben caratterizzate, sia rispetto alla scuola primaria in cui sono diffuse le strutture piccole e molto aderenti ai contesti di riferimento. Nella scuola media, inoltre, si comincia ad avere come bussola soprattutto quello che verrà dopo, comparti e indirizzi che portano il segno di tradizionali gerarchizzazioni culturali e sociali (e perfino di stereotipi di genere), e questo conta parecchio. Sono tante le realtà in cui quello che si è magari molto apprezzato nella scuola primaria, per esempio scuole e classi multiculturali, viene visto come un pericolo da evitare nella media.

Lo studio della Fondazione Agnelli, fondandosi sui dati Invalsi, dice però che delle classi ad alto indice di eterogeneità non bisogna aver paura . E che anzi i progressi in apprendimento qui sono più spiccati che nelle classi caratterizzate da un alto livello di omogeneità. Non solo, com’è intuitivo, nelle classi dove omogeneità significa addensamento di allievi con svantaggi socioculturali, in cui viene a mancare l’”effetto traino” e in cui sono maggiori i rischi di abbassamento degli obiettivi e delle aspettative da parte degli insegnanti. I progressi di apprendimento delle classi eterogenee si rivelano più spiccati anche rispetto alle classi dove omogeneità significa al contrario addensamento di studenti variamente avvantaggiati perché tra gli studenti i comportamenti competitivi possono prendere il sopravvento su quelli collaborativi. Le rivalità sulla propensione a lavorare in gruppo. Una perdita per tutti, per chi non è aiutato ma anche per chi non aiuta.

La “peer education”, l’imparare dallo scambio tra coetanei, ha bisogno della varietà, funziona poco e male nei contesti troppo omogenei. Un ambiente vario contribuisce allo sviluppo della motivazione ad apprendere, stimola a misurarsi con la complessità, fa maturare la responsabilità e la capacità di risolvere problemi. Sono cose arcinote, ma conforta che se ne possano avere conferme scientifiche.

Le buone notizie tuttavia finiscono qui. Dallo studio emerge infatti una realtà fortemente diversificata sul piano territoriale. L’eterogeneità nella formazione delle classi caratterizza più il Centro-Nord (con l’eccezione di Piacenza) che il Mezzogiorno. Le province dove l’eterogeneità è maggiore sono Mantova, Trieste, Varese. Quelle dove è minore sono Cosenza, Bari, Napoli.

Si tratta di una maggiore permeabilità dei dirigenti scolastici delle aree meridionali alle pressioni delle famiglie, quindi di una maggiore debolezza della scuola rispetto al contesto sociale? O di una maggiore adesione delle scuole al pregiudizio che vede in alternativa l’equità e l’efficacia? E ancora, quanto incidono gli effetti di uno sviluppo difficile, di un disagio socioculturale più diffuso e acuto che in altre aree del paese, di un mercato del lavoro terribilmente agro anche per chi ha titoli di studio di livello medio e alto? Domande difficili ma importanti.

Fiorella Farinelli

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