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Discriminazioni scolastiche e ostacoli da rimuovere

Pubblicato il: 24/04/2024 07:39:21 -


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In che modo la scuola di oggi sta raggiungendo i suoi obiettivi di scuola inclusiva, di orientamento, di promozione del civismo e di raggiungimento delle competenze chiave di cittadinanza? Questa impegnativa domanda nasce dall’insieme di critiche e riflessioni che periodicamente si impongono sulla pubblica stampa e che danno libero spazio a opinionisti e responsabili istituzionali, spesso ignari di pubblicazioni degli esiti di ricerche, di monitoraggi accreditati, di dati di settore, che dimostrano chiaramente il mancato o parziale raggiungimento degli obiettivi in discussione. 

Occorre qui ricordare che la Costituzione Italiana e molta documentazione europea hanno fissato alcuni principi fondamentali che ispirano le istituzioni dello Stato, prima tra tutti la Scuola. Principi di laicità, che significa pluralismo confessionale e culturale, del divieto a qualsiasi discriminazione in ragione di appartenenza a diversa etnia, religione, orientamento sessuale, etc, e soprattutto della pari dignità di tutti i cittadini davanti alle leggi. Non sarebbe necessario ricordarlo, se non fossero tornate a galla alcune questioni che riportano di molto indietro la lancetta del tempo. 

Recenti decisioni assunte da dirigenti scolastici, e/o proposte revisioniste di responsabili ministeriali dell’attuale ministero (MIM) sembrano andare davvero controcorrente rispetto al senso di democrazia che ha informato la Costituzione per “[…] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […]” (art..3).

Il risultato di tali decisioni e proposte non è semplicemente un fatto di cronaca. Si tratta di indicatori di posizioni che vanno nella direzione della possibile discriminazione tra studenti e famiglie nelle scuole diItalia, di disparità di risorse per la rimozione di ostacoli alla reale alfabetizzazione di tutti gli studenti, ma soprattutto non suffragate da alcuna evidenza scientifica di natura psico-pedagogica. Ne richiamo due:

Indicatore 1. Come altro dimostrare la sensibilità culturale e il rispetto delle differenti e prevalenti pratiche religiose se non nel rispetto delle comunità che fruiscono del sistema di istruzione e che partecipano da anni alla forza produttiva di alcuni territori? Logica conseguenza prevederebbe il rispetto e la garanzia, in alcuni periodi e occasioni dell’anno,di un prevedibile sospensione della didattica, o almeno di differire alcune attività che potrebbero pregiudicare la partecipazione o il riscontro formale di verifica degli apprendimenti.Il calendario scolastico può e deve, in un’ottica di autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche, prevedere flessibilità, proprio nel rispetto di un pluralismo sociale e di un orizzonte pedagogico interculturale. È il caso del periodo di Ramadan che in alcuni territori ad altra presenza di comunità musulmane ha portato alcune dirigenze scolastiche a decidere come comportarsi. Alla scuola di Pioltello (MI) si contrappone quella di Soresina (CR). Chi decide di sospendere la didattica e chi, alla luce di proteste di alcuni genitori e alcuni consiglieri comunali, fa marcia indietro, per evitare di “generare disagio e confusione nella comunità scolastica”. Ma quale confusione, quale disagio? Qui si configura una vera e propria discriminazione e differenza di trattamento delle comunità intese come contrapposte. Se la cultura del dialogo, del rispetto e dell’intercultura si gioca proprio su questo terreno, il favorire tali processi è compito proprio dei responsabili istituzionali. Che si chieda l’intervento del capodello Stato a garantire tale rispetto è la prova di quanto il conflitto da culturale diventi politico e porti proprio a parlare di discriminazione piuttosto che di rimozione di ostacoli.

Indicatore 2. Come altro dimostrare la promozione del successo scolastico per tutti, se non garantendo il recupero di possibili deficit linguistici tenendo conto non prioritariamente della cittadinanza dei genitori degli studenti, ma del mancato raggiungimento di livelli minimi da parte di tutti gli studenti? I risultati rilevati dalle principali organizzazioni di settore dimostrano che il mancato raggiungimento di livelli minimi non riguarda solo alunni stranieri. Già considerare straniero chi è nato e vive da anni Italia è elemento di discriminazione, ma non accorgersi che il problema è ben più ampio e riguarda la povertà educativa minorile, è quantomeno segno di superficialità. Fattori socio-economici e determinanti sociali incidono trasversalmente e certo non si risolvono con test per i soli “stranieri” al momento dell’iscrizione. Riappare l’ombra di “Ellis Island” e dei questionari per il migrante, del periodo delle nostre emigrazioni oltreoceano. Le classi differenziali sono una scorciatoia demagogica e certamente non pedagogica. Abbiamo piuttosto bisogno di molte più risorse per creare una pluralità di occasioni di potenziamento linguistico, per non parlare degli apprendimenti di competenze matematiche che vedrebbero classi differenziali per tutti. Fornire le diverse forme di supporto, potenziamento, recupero, sostegno, significa rendere disponibili risorse per la formazione di personale specializzato non solo per aspetti disciplinari, ma metodologici e psico-sociali. Significa preparare e nutrire le scuole di mediatori culturali, insegnanti specializzati, disporre di figure per favorire reti di comunità, di mediatori familiari. Insomma, è la comunità educante la chiave di volta per l’inclusione e il contrasto alla dispersione scolastica e alla marginalità sociale. Proporre di stabilire quote di “stranieri” per classe è un’idea che può funzionare solo a patto di intendere per “straniero” chiunque si trovi in una situazione di marginalità e di richiesta di intervento per diventare un libero e responsabile cittadino.

Guido Benvenuto

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