Competenze non cognitive: una proposta totalitaria o già vecchia?
E’ cominciata in Senato, dopo l’approvazione alla Camera, la discussione sulla proposta di legge sulle c.d. competenze non cognitive. Nonostante l’approvazione pressoché unanime del testo da parte dei deputati, questa proposta ha suscitato reazioni contrastanti, anche dure, da parte di esperti e commentatori, a cominciare da Ernesto Galli della Loggia, che dalle colonne del Corriere della Sera ha accusato il Parlamento italiano di voler realizzare attraverso la scuola un vecchio progetto di totalitarismo, con la complicità di Indire ed Invalsi, che sarebbero, a suo dire, roccaforte, in stretto collegamento con le centrali euro-internazionali della nuova ideologia educativa, di una concezione dei sistemi fondata sull’idea di tradurre in termini standardizzati e quantificabili non tanto le conoscenze quanto soprattutto un certo insieme di tratti psicologici degli studenti, di atteggiamenti o elementi del carattere, inclusi i sintomi clinici delle categorie a rischio, per poi naturalmente intervenire in senso terapeutico.
Al di là delle esuberanze verbali, sono fondate le critiche di Galli della Loggia?
Effettivamente un esame attento della proposta di legge mostra innanzitutto una grande debolezza per quanto riguarda la definizione di competenze non cognitive, perché vengono presentate, in due diversi articoli del testo, due esemplificazioni completamente differenti di questo tipo di competenza. Infatti:
- nell’art.1 la spiegazione di cosa siano competenze non cognitive riporta, come esempi, l’amicalità, la coscienziosità, la stabilità emotiva e l’apertura mentale;
- nell’art.3 tra le abilità e competenze non cognitive sono citate la flessibilità, la creatività, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la capacità di giudizio, la capacità di argomentazione e la capacità di interazione.
Sono due formulazioni molto diverse: nell’art.1 non sono elencate competenze ma tratti della personalità, rispetto ai quali la pretesa di intervenire in sede scolastica desta in effetti più di una perplessità. Già la sola diagnosi del possesso di queste competenze richiederebbe agli insegnanti il possesso di competenze (queste sì sarebbero competenze) normalmente in possesso di altre categorie professionali. Che cosa significa, ad esempio, intervenire sulla amicalità? Dovrebbero diventare tutti compagnoni ed estroversi? Bisogna riconoscere, sulla base della lettura di questo primo articolo della legge, che Galli della Loggia potrebbe non avere tutti torti. La scuola deve rispettare la personalità dell’alunno.
L’esemplificazione riportata all’art.3 è invece completamente diversa e riporta il testo della proposta di legge su un terreno più condivisibile sia sotto l’aspetto definitorio (entriamo nel terreno delle c.d. soft skills), che nel merito della proposta. Su questo ambito effettivamente si è concentrato il dibattito internazionale e nazionale degli ultimi anni. In sede di Unione europea già nel 2006 era stata emanata una Raccomandazione sulle Competenze di cittadinanza, alcune delle quali di carattere non strettamente cognitivo. Nel 2018 la stessa Unione europea ha introdotto alcune modifiche alla Raccomandazione precedente, inserendo nell’elenco la Competenza personale, sociale e capacità di imparare a imparare, che consiste nella capacità di riflettere su se stessi, di gestire efficacemente il tempo e le informazioni, di lavorare con gli altri in maniera costruttiva, di mantenersi resilienti e di gestire il proprio apprendimento e la propria carriera. Si basa – afferma la Raccomandazione – su un atteggiamento improntato a collaborazione, assertività e integrità, che comprende il rispetto della diversità degli altri e delle loro esigenze, e la disponibilità sia a superare i pregiudizi, sia a raggiungere compromessi.
Come si può vedere siamo nello stesso ambito delle competenze non cognitive richiamate all’art.3 della Proposta di legge. Non si tratta di una proposta sbagliata, perché da moltissime parti, oltre che in sede internazionale, è stata sottolineata da molti anni l’esigenza che le pur necessarie competenze cognitive (nessuno nega la loro centralità) siano valorizzate e agite per mezzo delle c.d. soft skills, e che la didattica si faccia carico anche della loro acquisizione da parte degli alunni. Non è dunque una novità. Sulla base delle sollecitazioni provenienti dalla Raccomandazione europea e da altre istituzioni, e del dibattito che si è sviluppato in sede nazionale, in tutta la successiva produzione normativa del nostro Paese riguardante i programmi di tutti gli ordini di scuola e nelle relative modalità di certificazione, è stato inserito il richiamo alla necessità di sviluppare nell’ambito dell’insegnamento le competenze non cognitive. Ad esempio già nel 2007 il Regolamento sull’elevamento dell’obbligo d’istruzione (DM 139/2007) individuava 8 competenze chiave di cittadinanza, tra cui Imparare ad imparare, Collaborare e partecipare (interagire in gruppo, comprendendo i diversi punti di vista, valorizzando le proprie e le altrui capacità, gestendo la conflittualità, contribuendo all’apprendimento comune ed alla realizzazione delle attività collettive, nel riconoscimento dei diritti fondamentali degli altri), Agire in modo autonomo e responsabile (sapersi inserire in modo attivo e consapevole nella vita sociale e far valere al suo interno i propri diritti e bisogni riconoscendo al contempo quelli altrui, le opportunità comuni, i limiti, le regole, le responsabilità), Risolvere problemi. Nel 2010 venne emanato un modello di certificazione nel quale le competenze chiave di cittadinanza costituivano il quadro di riferimento per la certificazione delle competenze di base.
Per quanto riguarda il primo ciclo di istruzione (scuola elementare e media), le Linee guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo di istruzione, predisposte dal Miur nel 2018, proposero alle scuole una rilettura delle Indicazioni nazionali emanate nel 2012 attraverso la lente delle competenze di cittadinanza, proponendo, tra gli indicatori di competenza, l’autonomia, la relazione, la partecipazione, la responsabilità, la flessibilità, la resilienza, la creatività, la consapevolezza.
Insomma le competenze non cognitive sono ufficialmente entrate da molti anni nella didattica di tutto il sistema scolastico, anzi il loro possesso da parte degli alunni è addirittura formale oggetto di valutazione e certificazione finale. E’ dunque singolare che la Proposta di legge approvata alla Camera ne preveda l’introduzione sperimentale e volontaria nell’insegnamento quando da parecchio tempo esse sono diventate obbligo di legge. Certamente potrà essere utile un’azione di rinforzo delle competenze didattiche dei docenti in questo ambito, come auspicato dal testo della Proposta, ma non credo ci sia bisogno di una legge per introdurre un’attività di aggiornamento nella scuola, oltretutto senza tener presente il già definito contesto normativo nel quale essa andrebbe ad inserirsi.
Giorgio Allulli Vicepresidente della Rete europea della qualità dell'Istruzione e formazione professionale (EQAVET); già direttore delle aree sistemi formativi del Censis, dell'Isfol e della Conferenza dei Rettori.