L’università che non apre agli stranieri
Uno studente con background migratorio ha, rispetto ai coetanei italiani doc, una probabilità dimezzata di iscriversi al comparto liceale, e invece doppia di iscriversi a un istituto professionale. Con ovvie conseguenze sui percorsi universitari.
Sono precipitati sotto quota 300.000 i ragazzi che si iscrivono per la prima volta all’università. Un calo netto, dal 2008-2009, rispetto ai 330.000 dei primi anni 2000 e ai 370.000 di dieci anni prima. Come si spiega in un paese così povero di laureati come il nostro? Nell’interessante dossier di Scuola Democratica curato da Giunio Luzzatto (“La ‘guerra dei numeri’”, Scuola Democratica n.2. Contributi di Andrea Cammelli, Andrea Gavosto e Stefano Molina, Giunio Luzzatto e Stefania Mangano, Marino Regini) si confrontano interpretazioni diverse. E si discute di quello che manca, in comparazioni e studi, per poter approdare a conclusioni convincenti. È certo comunque che al calo deve aver contribuito l’esaurirsi dell’ondata di iscritti ultraventenni – e ultratrentenni – attratti dalla possibilità apertasi con il 3+2 di conseguire un titolo di livello terziario, anche tramite il riconoscimento di esami superati con il vecchio ordinamento. Ma sembrano calzanti anche le interpretazioni, forse non troppo gradite al mondo accademico, che guardano soprattutto alla crisi di immagine dell’università italiana, e alla sfiducia di giovani e famiglie sul valore effettivo nel mondo del lavoro delle competenze e dei titoli acquisiti con i percorsi universitari. A partire da non poche lauree triennali, e nel mezzo della “grande crisi”. Possono però esserci anche altri fattori di cui bisognerebbe verificare la portata. Andrea Gavosto e Stefano Molina citano tra gli altri un tema di cui non si discute granché né fuori né dentro i sistemi educativi. Non a caso, si direbbe. Quanto incide su quel calo il fatto che i ragazzi di provenienza straniera, prime e seconde generazioni, all’università non ci arrivano proprio, o solo in misura ridottissima? Sono oltre 50.000, una quota non insignificante – l’8% – dei nostri 19enni, e in tendenziale crescita. Ecco uno dei versanti della questione su cui mancano perfino i dati non essendo stati ancora oggetto di studi i loro percorsi di transizione dalla scuola all’università. Ma non è difficile trarre qualche deduzione da quello che invece si conosce, cioè le loro scelte di indirizzo dopo la scuola media. Non sono, come noto, buone notizie. Uno studente con background migratorio ha, rispetto ai coetanei italiani doc, una probabilità dimezzata di iscriversi al comparto liceale, e invece doppia di iscriversi a un istituto professionale. La sovrarappresentazione è poi vistosa nei percorsi triennali di IeF, in cui è solo il 30% dei qualificati a rientrare nei percorsi scolastici, e quella quota è fatta quasi per intero da italiani. Nei tempi in cui le cose si chiamavano con il loro nome, si sarebbe parlato di “segregazione formativa”. Oggi non se ne parla proprio, eppure c’é. Tra le cause, una condizione sociale che spinge verso studi che promettono un più rapido inserimento lavorativo. Ma c’è forse dell’altro. I ritardi scolastici, che si accumulano fin dalla primaria e crescono nella secondaria scoraggiando la scelta dei percorsi lunghi. Il non detto di stereotipi e pregiudizi interiorizzati anche dalla scuola che inducono chi orienta a non consigliare troppa discontinuità rispetto al destino sociolavorativo dei padri e delle madri. E poi i deficit linguistici – la lingua che serve per studiare – che anni e anni di scuola non riescono quasi mai a far superare del tutto, anche per i nati in Italia.
I forse si sciolgono in certezze nel rapporto 2010-2011 della Commissione Europea “Progress towards the common European objectives in education and training” (http://ec.europa.eu/education/lifelong-learning-policy/doc2881_en.htm) che monitora ogni anno la capacità dei sistemi di istruzione di offrire pari opportunità di successo scolastico ai figli dei migranti. Con l’eccezione dei paesi anglosassoni – ma anche di Belgio e Portogallo – il loro svantaggio è evidente, nelle competenze linguistiche (verificate a 9-10 anni da PIRLS, a 15 da PISA) e in termini di abbandoni precoci. L’Italia però fa peggio. Per literacy, il punteggio medio nella primaria è più basso rispetto agli italiani del 5%, e non si recupera nella media dove la disparità sale al 15%. Quanto agli early school leavers, se nella media europea il fenomeno presenta un valore doppio per i figli dei migranti rispetto agli autoctoni, in Italia siamo a 40% contro 17%. Storia non difforme, e qui la distanza dalla media europea è enorme, per la partecipazione al lifelong learning: bassa la partecipazione totale (6,3% ), bassissima (3,4% ) quella degli stranieri adulti. Con gli effetti che si conoscono, anche sulle competenze linguistiche dei figli, seconde generazioni comprese, di un italiano domestico povero e approssimativo. Ci vorrà del tempo – e politiche scolastiche assai diverse da quelle che ci sono state finora – perché quell’8-10% di giovani con background migratorio possa aspirare a studi terziari. Una questione di importanza strategica, che non riguarda solo l’equità e l’efficacia del nostro sistema di istruzione.
Fiorella Farinelli