Formazione per i lavoratori: i fondi paritetici
Una novità promettente, quella dei fondi per la formazione continua operativi dal 2004. Ma per il diritto di tutti a sapersi misurare con la realtà del lavoro c'è ancora tanto da fare.
La formazione continua per gli occupati dovrebbe misurarsi con bisogni formativi di tanti tipi diversi. In Italia, paese non incline alle politiche “attive”, risorse e interventi guardano più al lavoro che cambia che ai lavoratori che cambiano lavoro. Più all’efficienza produttiva che a rafforzare le persone in un mercato del lavoro che esige flessibilità. Più alle prestazioni che all’occupabilità. Tutto ciò è fisiologico quando a decidere sono le aziende, lo è assai meno nel caso delle politiche pubbliche. Le imprese italiane, del resto, non hanno grandi tradizioni formative. Se la partecipazione delle forze di lavoro al lifelong learning non arriva neppure a metà del 12,5% fissato da Lisbona come traguardo minimo per ogni paese, anche per percentuale di “imprese formatrici” l’Italia si colloca in fondo alla graduatoria. Negli ultimi dieci anni siamo migliorati di otto punti – dal 23,9% del ‘99 al 32% – ma nell’Europa a 27 siamo al 25esimo posto. Dietro di noi solo Grecia e Bulgaria.
Sappiamo tutto di quello che nel nostro sistema produttivo spiega lo scarso impegno in formazione, analogo e connesso con quello in ricerca e innovazione. Riflettiamo poco sulle sue conseguenze immediate e future. Rimuoviamo spesso che anche la formazione per il lavoro dovrebbe tener conto, se non farsi carico, di livelli troppo bassi di istruzione anche dei più giovani. I dati (si veda www.eformazionecontinua.it) ci dicono che ad usufruire delle opportunità sono sopratutto i lavoratori delle grandi imprese, i meno anziani, i diplomati e laureati, più nel Nord che nel Sud, più italiani che stranieri. Se finora neppure l’altissima incidenza delle morti da lavoro ci ha convinto a cambiare rotta, saranno forse gli effetti della tormentosa crisi di questi mesi a obbligarci a scelte inedite.
Un cambiamento importante, comunque, c’è stato. Dal 2004, quando sono diventati operativi nel comparto privato i Fondi Interprofessionali per la formazione continua costituiti, dopo estenuante dibattito, sul modello della Francia (che li varò già nel 1970). Si tratta di organismi dalle parti sociali cui l’INPS trasferisce, via via che le aziende si affiliano, lo 0,30% dei contributi versati per la “disoccupazione involontaria”. Con queste risorse (dal 2004 più di 1 miliardo e mezzo), i Fondi finanziano piani aziendali, settoriali, territoriali – raramente anche individuali – sottoscritti dalle parti. Aderiscono finora il 40% delle imprese, in primo luogo grandi e medie, e del Centro-Nord. Anche la capacità di promuovere formazione non è ottimale: una parte importante delle risorse non è stata ancora spesa e i lavoratori coinvolti sono solo il 12,3%. Ma questi sono problemi di rodaggio che si risolveranno col tempo. Sono altre le questioni ancora aperte. Prima di tutto quella di un modello che, basato non su filiere produttive – come in Olanda, Francia, Belgio – ma sull’associazionismo di impresa, rinuncia in partenza alla specializzazione. Inadeguate anche le risorse (un quinto di quelle francesi), non modulate sulla dimensione di impresa, e sottratte – perché prima dei Fondi con lo 0,30 si finanziavano le politiche regionali – alla formazione promossa dal pubblico. Un sacrificio giustificato dalla scommessa di una formazione che, proprio perché decisa nei luoghi di lavoro, dovrebbe aderire meglio ai bisogni di imprese e lavoratori.
Ci sono però segnali che non ci siamo ancora, e che continuino a pesare diversi ostacoli, contraddittori con la richiesta delle imprese di essere riconosciute “soggetti formatori” a tutto tondo. Si aggiungono i ritardi a dar luogo a una programmazione condivisa con le Regioni per evitare sovrapposizioni e sprechi; per assicurare che ci sia formazione anche per i lavoratori per cui non viene pagato lo 0,30; per dare spazio alle fasce deboli e alle domande individuali; perché le competenze acquisite in azienda possano essere riconosciute anche fuori. Questioni cruciali, di funzionalità, eguaglianza, libertà, dietro a cui non ci sono solo antiche arretratezze culturali e tecniche ma anche un equilibrio tra interessi diversi che resta difficile.
Fiorella Farinelli