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La competitività nelle comunità di pratica

Pubblicato il: 12/07/2010 14:07:09 -


La condivisione competitiva delle conoscenze nelle comunità di pratica, non solo luogo di contrattazione di significati, ma anche di contrattazione di interessi.
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IL TEMA

Le comunità di pratica professionale sono oggi uno dei luoghi più interessanti e significativi per l’apprendimento adulto e, in particolare, per l’apprendimento on the job, in tutte le forme e i modi in cui le comunità di pratica stesse possono costituirsi ed essere organizzate. Il concetto di comunità di pratica fu formalizzato dall’Institute for Research on Learning, del Palo Alto Research Center, nel 1987. A studiarle in modo analitico e sistematico è soprattutto Etienne Wenger, di cui qui ricordo solo “Comunità di Pratica. Apprendimento significativo”, (2006).

In generale, le comunità di pratica possono essere definite come gruppi di persone che condividono l’interesse su un tema, ne comprendono i problemi fondamentali e le ipotesi di soluzione. Le comunità di pratica sono caratterizzate da due elementi fondamentali:
• la condivisione di pratiche di lavoro come base per il trasferimento e la generazione della conoscenza;
• la volontà di appartenere a un gruppo con valori unici, distinti, duraturi collegabili alle stesse pratiche.

Le comunità di pratica sono, per quanto riguarda l’impresa, un supporto alla qualità e all’innovazione e, per quanto riguarda le persone, un luogo di formazione professionale e di condivisone emotiva.

Ci sono, in massima sintesi, due tipi diversi di comunità di pratica: comunità di pratica auto-organizzate e comunità di pratica sponsorizzate dall’impresa.

Questo lavoro analizza i meccanismi di condivisione delle conoscenze in una comunità di pratica del secondo tipo, promossa da una organizzazione professionale – una società di consulenza – propensa all’innovazione. È quindi il risultato anche di alcune interviste realizzate con i professionisti di questa organizzazione.

LE CONOSCENZE COME MERCE

La collaborazione alla comunità di pratica ha la forma della competizione perché l’organizzazione remunera in vari modi la partecipazione alla comunità stessa e gli interventi più significativi. Questa configurazione della comunità di pratica rende evidente che le conoscenze sono merce che ogni professionista è chiamato a vendere nel mercato interno dell’organizzazione. È la concretizzazione più significativa di un motto latino, presente in una sala dell’Università di Padova: “Homo tantum potest quantum scit”. Se, però, le conoscenze sono merce da vendere secondo la logica della competizione, il professionista che partecipa alla comunità di pratica può porsi le seguenti domande:
• come posso articolare le mie strategie competitive nella comunità di pratica?
• fino a quando mi conviene competere/collaborare nella comunità di pratica della mia organizzazione e non cercare la competizione sulle conoscenze anche nel mercato esterno?

Provo a rispondere a queste domande secondo i modelli degli equilibri competitivi proposti dalle teorie dei giochi, ben sintetizzate da Roberto Lucchetti in “Di duelli, scacchi e dilemmi” (2008).

L’OGGETTO DELLA COMPETIZIONE NELLA COMUNITÀ DI PRATICA

Ogni professionista ha a disposizione diversi livelli di condivisione delle conoscenze all’interno della comunità di pratica:
• può decidere di condividere nella comunità di pratica tutte le sue conoscenze,
• può individuare, nell’ambito delle sue conoscenze, quelle che gli è vantaggioso mettere in comune e quelle che, invece, gli è vantaggioso serbare per sé,
• può anche decidere, almeno temporaneamente, di sospendere la collaborazione alla comunità di pratica.

I livelli di condivisione delle conoscenze sono relativi alle strategie dominanti – le strategie che i professionisti attuano a prescindere dalle strategie altrui per ottenere il miglior risultato – che ogni professionista può decidere di adottare e che si giocano proprio sulle conoscenze non condivise.

Queste conoscenze sottaciute, infatti, ogni professionista può pensare di spenderle: a) in un momento diverso della competizione interna all’organizzazione b) di metterle in campo qualora decida di competere sul mercato globale delle organizzazioni.

LA COMPETIZIONE ALLA RICERCA DI EQUILIBRIO

In una prima fase ogni professionista condivide le sue conoscenze, e quindi, compete, nella comunità di pratica dell’organizzazione perché è convinto che la sua condivisione/competizione sia vantaggiosa:
a) per lui. nel confronto personale con i colleghi;
b) per la comunità di pratica come motore di sviluppo dell’organizzazione, che così potrà meglio remunerare, in un prossimo futuro, le sue strategie di condivisione delle conoscenze nella comunità di pratica.

Per questo, in questa fase, nella comunità di pratica, la strategia dominante di ogni professionista è la competizione con i colleghi tale che ognuno possa massimizzare il minimo guadagno o, nel caso peggiore, minimizzare il massimo svantaggio. Si tratta, in qualche misura della riproposizione dell’equilibrio di Nash. Ogni professionista è disposto a condividere le sue conoscenze – e a moderare le sue dinamiche competitive, anche rinunciando a un maggior vantaggio personale – perché la collaborazione è ancora complessivamente più vantaggiosa. Nel nostro caso: la massimizzazione del minimo guadagno deriva dallo sviluppo della comunità di pratica, da cui tutti possono essere remunerati, la minimizzazione del massimo svantaggio deriva dalla moderazione con cui avviene la competizione, e quindi dalle differenze minime con cui l’organizzazione distribuisce la remunerazione tra i competitori. È, in sostanza, un gioco senza che si delinei in modo netto un quadro di vinti e vincitori. Lavoro sull’ipotesi che l’equilibrio competitivo sia dato dall’incontro delle strategie dominanti perché mi sembra irrealistico pensarlo come il risultato di un accordo esplicito tra i professionisti stessi: chi lo presidierebbe? Con quali sanzioni per eventuali violazioni?

OLTRE L’EQUILIBRIO DI NASH

Prendiamo ora in considerazione la possibilità che un professionista decida di chiedere una maggiore remunerazione per condividere un’area più o meno ampia delle conoscenze che ha finora taciuto. È il momento in cui la sua strategia dominante è quella di abbandonare la situazione di equilibrio di Nash. In ogni caso, quel professionista è deciso a portare fino in fondo la competizione con i colleghi e a prevalere su di essi. Il professionista cerca ora la remunerazione per le proprie conoscenze solo in riferimento a sé, non considerando più significativo quanto gli può venire dall’equilibrio con la comunità di pratica e nella organizzazione. Egli può chiedere come remunerazione per la condivisione delle sue conoscenze stesse di scalare in modo significativo le posizioni organizzative, o altri importanti vantaggi contrattuali. Tutti vantaggi, comunque, che l’organizzazione non può accordargli senza danneggiare, in qualche modo, gli altri partecipanti e senza aumentare le risorse disponibili per la comunità di pratica.

Quel professionista ha scelto la strada dell’ottimo di Pareto, che – parafrasando la definizione di ottimo paretiano proposta da M. Doob in “Storia del pensiero economico” (1974) – nel nostro caso, suona: data la remunerazione a disposizione di ciascuno per la condivisione delle conoscenze nella comunità di pratica, nessun professionista può ottenere un vantaggio senza causare una perdita a un altro o ad altri professionisti.

Il gioco diventa a somma zero, qualcuno vince (+ 1), qualcuno perde (0), come nei giochi studiati da von Neumann.

L’organizzazione, a questo punto, ha a disposizione diverse strategie possibili:
a) confermare lo status dell’ottimo paretiano e soddisfare esclusivamente, in tutto o in parte, le richieste del singolo professionista, sottraendo risorse agli altri,
b) allocare nella comunità di pratica nuove risorse necessarie a rispondere solo, in tutto o in parte, alle richieste del singolo professionista,
c) aumentare le risorse disponibili alla comunità di pratica fino a poter meglio remunerare per la condivisione delle conoscenze tutti i partecipanti alla comunità di pratica,
d) respingere la richiesta del professionista.

Comunque egli dovrà decidere se accettare le condizioni che l’organizzazione gli propone o se non valga la pena competere anche sul mercato globale, al di fuori dei confini dell’organizzazione.

Appare evidente che, almeno in questo caso, la comunità di pratica non è solo il luogo di una contrattazione di significati, ma anche una contrattazione di interessi.

Eugenio Bastianon

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