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Dalla schizofrenia alla mente evolutiva: per dare un senso alla diversa abilità

Pubblicato il: 03/11/2009 18:42:07 -


Definire un alunno “handicappato” come alunno “diversamente abile” non è semplicemente questione di linguaggio politicamente corretto ma atteggiamento pedagogico ed educativo consapevole e concreto.
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La schizofrenia, come molte altre malattie psichiatriche, non è malattia alla stesso modo in ogni tempo, in ogni ambiente, in ogni cultura. Ci possono anzi essere sintomi della schizofrenia che in contesti particolari trovano riconoscimento e valorizzazione. Così si esprime il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Il grande narratore russo Fëdor Dostoevskij aveva a suo modo già esplorato questa prospettiva negli ultimi decenni del 1800, mostrando come delirio, epilessia, delirium tremens possano in realtà proporsi come allargamento dei confini della mente e della razionalità più generale.

Alla scoperta della mente. Più recentemente la questione è stata posta all’attenzione del grande pubblico dal bel film di Ron Howard “A Beautiful Mind”, del 2001.

Il film propone la storia di uno dei più grandi matematici del Novecento, John Nash, premio Nobel per l’economia nel 1994. Nash riuscì, infatti, a provare che ogni gioco non cooperativo a due o più giocatori, anche non a somma zero, ammette un equilibrio. In altri termini, Nash dimostrò che un comportamento non può essere migliorato con azioni unilaterali, nel senso che lo si sarebbe tenuto anche avendo saputo in anticipo il comportamento dell’avversario. Nash aprì in questo modo nuove prospettive in diversi ambiti di ricerca e anche nel campo della competizione economica.

Una delle suggestioni che il film sviluppa è, alla fine, sintetizzabile in questo modo: la schizofrenia non blocca ma, a suo modo, potenzia quelle caratteristiche tipiche che rendono l’intelligenza matematica capace di produrre nuove conoscenze e di affrontare positivamente quei problemi per i quali non vi siano ancora procedure di soluzione già definite. È il caso, nel film, dell’analisi e della decifrazione dei messaggi cifrati.

Si tratta della capacità di “visione”, di produrre conoscenza e scoperte attraverso immagini mentali nuove, oggi argomentata come propria dell’intelligenza matematica dagli studi di Howard Gardner e Roger Penrose. Ciò che l’intelligenza matematica argomenta come “visione”, nell’esperienza, drammatica, della schizofrenia è l’allucinazione visiva. Leggiamo cosa scrive su questo Hans Prinzhorn nella sua indagine sui fluidi confini tra arte e follia: “Ci troviamo di fronte ad un fatto sorprendente: l’affinità tra il sentimento del mondo schizofrenico e quello che si manifesta nell’arte contemporanea può essere descritto con gli stessi termini… se si osservano attentamente le forme d’espressione del nostro tempo, si riscontra ovunque, nelle arti plastiche come nei vari generi letterari, una serie di tendenze, che troverebbero soddisfazione solo presso un vero schizofrenico (…). Sentiamo ovunque un gusto istintivo per la particolarità che conosciamo bene negli schizofrenici”.

Si ripropone insomma, tornando alla mente evolutiva, la possibilità che nella schizofrenia siano presenti anche elementi costitutivi di una più ampia e diversa razionalità.

Andiamo a scuola. Ciò che, però, interessa a noi, qui, in questo momento, non è una mera riflessione sulla natura e sulle caratteristiche della mente. È, piuttosto, la possibilità che quanto abbiamo pur sommariamente proposto dia corpo e sostanza alla buona pratica che oggi, nella scuola, impone di chiamare gli alunni con certificazione di handicap non alunni “disabili” ma alunni “diversamente abili”. La domanda è: si tratta solo di una questione di linguaggio politicamente corretto o, sotto la norma, vi è una reale sostanza formativa?

In breve, la nostra conclusione è questa: il caso “schizofrenia” mostra che la condizione per la quale definire un alunno “handicappato” come alunno “diversamente abile” non è semplicemente questione di linguaggio politicamente corretto ma atteggiamento pedagogico ed educativo consapevole e concreto risiede:

a) in una compiuta analisi delle possibili articolazioni della mente e delle intelligenze plurali;
b) in una prospettiva sulla disabilità non semplicemente nosologica, tesa a “oggettivare” e “classificare” in una forma di separatezza patologica la disabilità stessa ma a leggerla in un contesto sociale e culturale più ampio sulla persona e sulle sue esperienze personali e sociali.

Eugenio Bastianon

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