Capitale umano e scuola-lavoro: un classico
Il mondo del lavoro giustamente s’interroga sul problema della formazione del capitale umano, ambito in cui la scuola riveste un ruolo fondamentale.
Gli studi di settore più accreditati che si occupano di trovare strategie per facilitare la transizione scuola-lavoro, evidenziano dati di peso: i datori di lavoro lamentano tra i neoassunti carenze non nei contenuti specifici dei vari indirizzi quanto in competenze generali tra cui le capacità analitiche, il problem solving e le soft skills: capacità di leadership, etica e deontologia professionale, elementi decisivi nella formazione della “persona”.
Da docente di latino e greco non riesco a rimanere impassibile davanti a queste osservazioni: formare generazioni colte ma meccaniche, non sicure nell’affrontare una quotidianità lavorativa che non sia fatta di verifiche non è il sogno di un educatore. È disarmante. È come se tra l’ambito educativo e quello lavorativo esistesse una virtuale cerniera pronta per essere chiusa ma che fatichiamo a far combaciare.
Per le etimologie ho sempre avuto un gran rispetto. Se parliamo di capitale umano, non c’è grande spazio per l’interpretazione: umano ha a che fare con homo, e, come ci insegna Terenzio, homo sum humani nihil a me alienum puto.
Tutto ciò che ha a che fare con l’uomo è un patrimonio dell’uomo, da coltivare, a partire dalle humanities, ciò che di più bello ha saputo produrre la mente umana in ambito culturale e creativo. Quando si parla di studi umanistici e della loro validità nella formazione il liceo classico è la guest star: in suo onore è stato celebrato un processo la scorsa primavera a Roma e recentemente a Torino. Il verdetto: salviamo il liceo classico non adeguandolo alle mode ma adattandolo al XXI secolo. Il liceo classico penso sia per natura un terreno fertile in relazione a quanto può coniugare tradizione culturale, innovazione metodologica e internazionalità.
Se a diciassette anni, con una didattica adeguata, leggo ad alta voce o recito un dialogo socratico, non lo “studio” semplicemente, lo “indosso”. M’insegna che la rigidità di vedute e il non sapersi mettere in gioco porta solo al conflitto sterile, m’insegna il coraggio delle domande e diventerà un mio habitus mentale nella vita affettiva e lavorativa.
La cultura e l’educazione di ciascuno sono fatte di incontri, di confronti continui, di “contaminazioni” nel senso più alto del termine.
Sogno una diffusione contagiosa delle materie umanistiche, in ordini di scuole dove attualmente se ne studiano meno.
In cambio il liceo classico, ha assoluto bisogno di fare esperienze lavorative in modo regolare in aziende, tali che permettano ai giovani di sperimentare prontamente come applicare le competenze acquisite sui banchi: la sensibilità per i dettagli, il saper cogliere i nessi causa-effetto e le capacità analitiche.
Si tratterebbe di scuola fuori dalla scuola o meglio, di scuola che traduce la sua astrazione in azione, formando persone a tuttotondo.
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Immagine in testata di Socrates Beard
Cristina Dell’Acqua