Consiglio di classe: appunti di un genitore
Durante il primo consiglio di classe nel Liceo scientifico paritario "Leopardi" di Lecco, si scopre quanto l’autovalutazione riguardi i docenti, i ragazzi e i genitori.
Presenti il preside, tutti i docenti e i genitori.
Ci si guarda un po’ intimoriti ma attenti a ciò che il preside e i docenti ci diranno. Per molti genitori è la prima esperienza di un figlio in prima superiore, per altri no. Si respira una leggera emozione mista a sana curiosità.
Il preside inizia l’incontro presentando i “suoi” docenti, come li definisce lui. Ognuno di loro dice il proprio nome, illustra con poche battute la propria disciplina e subito il clima diventa più disteso.
Riprende la parola il preside, che ci propone (a noi genitori!) il percorso di lavoro che il collegio docenti ha avviato in quest’anno scolastico. Il titolo è molto semplice: autovalutazione dell’insegnante. Subito nasce nelle nostre teste la domanda: ma noi genitori cosa c’entriamo con l’autovalutazione degli insegnanti? C’è una posizione di attesa, abbiamo voglia di capire bene di cosa si tratta, a quel punto il preside inizia la sua comunicazione.
Si parla di apprendimento significativo, non di apprendimento per ricezione o apprendimento meccanico ma appunto significativo. L’insegnante si compiace nell’insegnare in quanto sa bene cosa sta insegnando… ma l’apprendimento di chi ascolta chi lo verifica? Occorre trovare una modalità di posizione dei docenti e dei ragazzi per valutare insieme il processo di apprendimento. Se non c’è tensione ad apprendere non c’è studio, si tratta di un lavoro, di un impegno che va proposto per imparare a studiare “da uomini” prestando attenzione a ciò che il docente dice. Il ragazzo non deve subire la proposta di studio ma deve essere sollecitato da un interesse personale. A noi genitori, a questo punto, nasce un’obiezione che subito viene letta dal preside sui nostri volti un po’ esterrefatti: non è questione del metodo di studio?
Il preside legge la nostra domanda inespressa sentenziando pacatamente ma con nettezza che le tecniche di studio servono solo di supporto, il metodo di studio non esiste in quanto è il docente stesso la strada per raggiungere l’apprendimento. Come nella bottega del falegname c’è il garzone che si siede vicino all’artigiano e cerca di imparare, ruba con gli occhi i segreti contenuti in una manualità creativa e sapiente, così anche in classe il ragazzo si siede e guarda, ascolta e segue.
Altro punto, la solita domanda “da genitori” fatta al figlio che torna a casa e si siede a tavola: “Quanto hai preso?”. Perché non chiedere, suggerisce il preside: “Cosa hai imparato?”. La prima domanda, infatti, angoscia il ragazzo e si riduce a quantificare il suo lavoro, la seconda lo spalanca in tutta la sua ampiezza di cuore e d’intelletto. Per il docente, valutare il ragazzo vuol dire porre attenzione al modo in cui il ragazzo si è messo dentro il processo di apprendimento. Quando il voto diventa l’unico criterio di misurazione, si innesca una specie di tragedia familiare. E qui il preside lancia un appello, chiedendo a noi genitori un aiuto nel non contrapporsi mai alla scuola. I ragazzi, specialmente in prima superiore, oscillano tra fragilità e spavalderia. “Se c’è un problema – insiste il preside, anche a nome dei docenti – prima sentiamoci noi adulti”. È un consiglio saggio che tranquillizza.
Una cosa è chiara e l’abbiamo capita bene e cioè che questa autovalutazione interessa tutti, anzi ha a che fare con tutti, ognuno secondo il proprio ruolo: docenti che devono compiere un lavoro su loro stessi e rivedere il metodo di insegnamento, non riducendolo a una pura trasmissione di dati; ragazzi che devono aprire gli occhi per imparare, guardando, ascoltando e trafficando; infine, genitori che dentro questo processo di apprendimento e di valutazione sono pronti a imparare.
Maria Grazia Colombo