La Buona scuola esce dall’isolamento
Un esempio di buona scuola: l’ISIS G. Natta di Bergamo dove passione professionale e innovazione didattica funzionano.
Chi scrive sarebbe considerata “un’innovatrice naturale”, per utilizzare un’espressione del documento ministeriale “La Buona scuola”, una docente che si è impegnata a insegnare “modi di pensare, metodi di lavoro e abilità per la vita e per lo sviluppo professionale nelle democrazie moderne”, in una scuola che è “centro della città”.
Un istituto che è la sintesi rappresentativa del proprio territorio, che è un laboratorio in cui se ne valorizzano le risorse, si utilizzano e si studia come migliorarle, con filiere formative contraddistinte dalla co-progettazione con i diversi attori della comunità.
Una scuola in cui l’innovazione didattica è tutt’uno con obiettivi formativi che si sviluppano dentro l’orizzonte di senso della sostenibilità ambientale, culturale, sociale ed economica, affrontata a partire dalle potenzialità e criticità del territorio.
Una scuola che è in grado di attuare “sintesi applicate”, espressione che sta a significare la capacità di riunire attorno allo stesso tavolo partner di provenienze diverse, con obiettivi condivisi e praticabili, creando una squadra di grande impatto sociale, professionale e culturale.
Una scuola che può essere vista come un campus, inteso come luogo in cui si attivano percorsi di ricerca, in grado di collegare filiera produttiva e Università, avendo a disposizione una straordinaria risorsa: la transdisciplinarità che è favorita dalla presenza di molteplici competenze: dei matematici, degli informatici, dei letterati, dei linguisti…
Nelle scuole “si opera” anche oltre l’orario curriculare: si progetta, si raccoglie, si comunica, ci si relaziona, si confrontano i risultati, senza misurare il tempo. Non è più possibile uscire da quest’architettura, non funziona più il dire e l’ascoltare lineare e unidirezionale, il mostrare e il ripetere in uno schema orario rigido, settorialmente considerato.
Non c’è miglior laboratorio di quello territoriale, del mondo delle professioni, quello che concorre a pesare l’apprendimento degli studenti e nel contempo a valutare l’adeguatezza dell’esperienza scolastica.
Il confronto con “l’adultità professionale” è il miglior termometro della buona scuola. La professionalità acquisita a scuola non deve però essere percepita come l’acquisizione di meri tecnicismi, ma nella prospettiva completa del cittadino attivo, che possiede un’identità professionale, che sa scegliere consapevolmente, che sa comunicare, argomentare, che sa relazionarsi, consapevole del ruolo da assumere.Tutte le scuole possiedono una potenziale lente speciale per analizzare i fenomeni, che purtroppo spesso si perde nei percorsi universitari. Una lente integrata, che consente agli studenti di analizzare un fenomeno o un problema con una molteplicità di strumenti interpretativi, il cui utilizzo proficuo può nascere però da una consapevolezza metodologica adeguata.
I consigli di classe? Gruppi di professionisti che insegnano a risolvere problemi, che intercettano interessi, che creano opportunità di sperimentazione, che collaborano con gli studenti nell’avventura formativa contraddistinta da risultati di ricerca raggiunti o traguardi persi, da problemi non risolti, da rompicapi che attivano la creatività e le nuove intuizioni.
Ciò richiede “un ripensamento di ciò che s’impara a scuola”; non possiamo rimandare, ad esempio, l’introduzione nelle scuole, accanto al sapere digitale, di nuove aree scientifiche, dalla robotica, alla neuroscienza, alla biomedicina, alle scienze ambientali, alla loro gestione in un contesto di cittadinanza attiva, in un’ottica di costante aggiornamento.
L’allievo della buona scuola si aggiorna con una preparazione “global”, che non può rimandare l’acquisizione di strumenti indispensabili, a partire dalla conoscenza delle lingue straniere, per conoscere e utilizzare le risorse internazionali, sapendole confrontare costruttivamente con quelle nazionali.
Orientare attraverso esperienze sul campo, vuol dire accompagnare lo studente in quei percorsi di apprendistato, stage, alternanza scuola-lavoro che si muovono verso le nuove professioni, verso nuovi ambiti di ricerca e anche verso professioni volte a valorizzare il patrimonio culturale materiale e immateriale.
La buona scuola sa valutare gli studenti in modo integrato, avendo come punto di riferimento le competenze trasversali. Ma com’è possibile valutare negli studenti competenze legate al problem solving o al saper lavorare in gruppo se l’insegnante non è un portatore esemplare di tali competenze. Non si può riconoscere ciò che non si sa insegnare e praticare o praticare e poi insegnare.
L’insegnante deve essere un tutor, un esperto di metodologia, un conoscitore del territorio, un orientatore, un promotore, un team leader, un intercettatore di risorse, un intermediatore.
Una professionalità, quella del docente, che richiede competenze di gestione di fenomeni complessi, che non si possono limitare alla conoscenza disciplinare. Una professionalità che si forma attraverso esercizi, sperimentazioni, esperienze e la guida di docenti senior, di “figure di sistema”, che possano essere punti di riferimento in un’architettura di rete.
È vero, gli insegnanti sono i migliori formatori dei colleghi, l’insegnante innovatore deve preoccuparsi di coinvolgere i colleghi per non perdere l’impronta collettiva e collegiale della formazione. Perché il sapere non può essere parcellizzato, suddiviso, comunicato in modo settoriale. La progettazione della scuola deve prevedere anche nuovi modelli organizzativi, che favoriscano, ad esempio, la nascita di luoghi di co-progettazione che coinvolgano alunni, genitori, personale ATA, territorio.
Questa è la mia scuola, una realtà che paradossalmente ha percepito ancora di più però la mancanza dell’attivazione di politiche scolastiche che uniformassero l’innovazione didattica. Uscire dall’isolamento comunicativo, riuscire a farsi capire perché si parte da vissuti comuni, questo potrà essere il notevole aiuto fornito dalla traduzione in pratica della proposta contenuta nel documento la Buona scuola.
Non più realtà scolastica favorita da circostanze anche territoriali speciali, non più eccellenza solitaria, non confrontabile ma, una scuola buona tra le scuole buone, rafforzata da una comunità d’intenti, dai contributi specifici di altre istituzioni scolastiche.
Questo potrebbe essere il futuro della mia scuola, un concreto esempio di buona scuola con i tratti descritti nel documento, a cui mancava un contesto sistematico di legittimazione di un’innovazione didattica e organizzativa attiva da anni, che ha continuato a innovare malgrado i vincoli di organico e i pregiudizi della “fortuna scolastica” non replicabile.
Una scuola, l’ISIS G. Natta di Bergamo, che appartiene ai poli tecnico-professionali, che possiede un Istituto Tecnico Superiore, che fa innovazione didattica, utilizzando i modelli della didattica per progetti e della didattica integrata.
Una scuola che pone al centro il lavoro dei ragazzi, una scuola in cui si formano studenti alla cittadinanza scientifica, culturale. Una scuola in cui si è sperimentata la co-progettazione (allievi, genitori, imprenditori, personale ATA), si sono sperimentate modalità formative che hanno introdotto “nuovi saperi” nella scuola. Una scuola che è vista come un campus, con laboratori di ogni genere, che sa attirare le committenze del territorio.
Gli insegnanti d’istituti come l’ISIS G. Natta sono straordinari professionisti, impegnati nella formazione dei colleghi in una vocazione formativa di secondo livello.
La bottega scuola però ha bisogno di comprensione e di condivisione, non di autocelebrazione.
È fondamentale quindi che l’eccellenza si estenda che la scuola metta a disposizione di altre scuole il proprio tesoro, perché le identità di questo tipo si moltiplichino, perché il sistema si abitui all’eccellenza, perché non ci sia isolamento determinato dall’eccezionalità di situazioni fortunate.
Sì, quella carta d’identità rappresentata dalla proposta di riforma La buona scuola è la carta d’identità che vorrei per tutte le scuole, con tanti insegnanti impegnati nella realizzazione di quest’avventura.
Non è forse un caso che ora mi trovi a continuare il lavoro di progettazione svolto nel mio istituto all’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia, cercando di condividere con altri colleghi le “buone pratiche”, intercettando modelli didattici e favorendone la diffusione, lavorando su alcune parole chiave: cittadinanza, anche digitale, innovazione tecnico-scientifica, didattica integrata, internazionalizzazione.
Il ruolo che pochi di noi ormai svolgono negli Uffici Scolastici Regionali deve essere esteso ai quei docenti che per competenze specifiche possono diventare formatori, tutor, funzioni guida per i colleghi. Speriamo che il mondo della scuola non abbandoni l’idea di farsi contaminare dall’ordinaria eccellenza.
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Immagine in testata dell‘ISIS G. Natta (Bergamo)
Simona Chinelli