Senza distinzioni
Violenza sulle donne, omofobia, razzismo, antisemitismo, bullismo. Sono fenomeni ricorrenti nella storia, che affliggono in modo particolare la società contemporanea. Cambiano le forme, comune ne è la sostanza, che trova non a caso il suo apice nei regimi dittatoriali, nel disprezzo nei confronti delle donne, degli omosessuali, dei dissidenti politici, degli ebrei, ecc.
C’è una parola che lega fenomeni così diversi ed è “discriminazione”. Ad essa si riferisce l’art. 3 della nostra Costituzione, per rifiutarla nettamente in nome di un’eguaglianza «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
È una storia già vissuta che i nostri Costituenti volevano non si ripetesse. E invece si ripete, alimentata da un regresso sociale che trova linfa nelle nuove forme di comunicazione – basta fare un giro sui social più utilizzati dagli adolescenti – e persino nelle forme artistiche più in voga, come ha rilevato l’attrice Cristiana Capotondi, non senza alimentare polemiche, a proposito dei testi di alcune canzoni del genere trap.
Viene difficile, però, attribuire una “colpa” esclusivamente a una forma di comunicazione o a un’espressione artistica. Forse è più corretto riconoscerla nella nostra società, in ciascuno di noi, che con atteggiamenti superficiali, spesso inconsapevoli, ha contribuito a formare o a consolidare una dilagante “cultura” discriminatoria. A separare (come vuole l’etimo di “discriminazione”) e non ad unire, a escludere e non a includere. È qualcosa che riguarda tutti noi, ogni ambiente, anche il più chic o quello che si propone come culturalmente raffinato, dove non manca quasi mai il sorrisetto o la battuta greve, che implicitamente o esplicitamente esprimono “discriminazione”. Fino al salotto televisivo dove si arriva tranquillamente ad affermare che «i maschi disturbati non hanno mai mamme normali» (sempre “colpa” delle donne, per non aggiungere altro sull’infelice battuta di una deputata della nostra Repubblica).
Sono atteggiamenti che formano una “cultura” o meglio una “sub-cultura” nella quale sono cresciuti i nostri ragazzi e stanno crescendo adolescenti sempre più fragili ed esposti, che si sentono non compresi in una società che si va disgregando, che sempre meno si riconosce in quel «senza distinzioni» che dovrebbe guidare le relazioni umane. È il paradosso di una società che alimenta le «distinzioni» per poi giudicarle e punirle, anche nelle forme più violente.
Posta così la questione, è davvero difficile dirsi immuni da responsabilità, affermare con orgoglio e sicurezza «io non c’entro».
Che la tragica fine di Giulia Cecchettin ci porti almeno a riflettere, a cambiare rotta, a praticare effettivamente quel rifiuto delle discriminazioni che a parole condividiamo (ahimè non sempre), ma nei fatti troppo spesso smentiamo. Ognuno faccia la sua parte, allora, unendosi agli altri, per rendere effettivo quel «senza distinzioni», rifiutando radicalmente la permanente, per quanto latente, ideologia della supremazia di genere e non sottovalutando mai l’importanza del singolo atteggiamento o comportamento per il perseguimento dell’obiettivo.
Marco Ruotolo Professore ordinario di «Diritto costituzionale» presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, Direttore del master in diritto penitenziario e costituzione