La libertà di scegliere e le tecnologie digitali a scuola
IL MANCINO E LA BIRO
Sono un nativo del calamaio. Per poco, ma lo sono stato. E questo ha condizionato alcuni aspetti della mia vita. Sono mancino, e in prima elementare, in un’epoca evidentemente remota, ogni mattina il bidello riempiva con l’inchiostro la vaschetta del calamaio dove si intingeva il pennino per scrivere; solo che la mia mano mancina seguiva ineluttabilmente il percorso dello scritto sbafando tutto. La maestra (ignorando possibili alternative, quale la scrittura “dall’alto” adottata in seguito da diversi mancini) decise semplicemente di cambiar mano alla mia scrittura: mano sinistra dietro la schiena e mano destra che impugnava la penna. Così sono diventato un mancino che scrive con la destra (non alla lavagna: quando iniziai a insegnare scoprii che con il gesso scrivevo bene con la sinistra e lo feci; fu la mia vendetta postuma). Dopo solo due o tre anni irruppe nella scuola una fondamentale innovazione tecnologica, la penna biro; ma per me era troppo tardi. Il suo inventore, l’ungherese Lázslo József Bíró, genio e benefattore dell’umanità, l’aveva commercializzata alcuni anni prima rivoluzionando la scrittura di generazioni di studenti: si poteva scrivere dappertutto, senza ricorrere alla sbiadita matita e prendere appunti su ogni genere di fogli, sempre e ovunque senza bisogno della carta assorbente, che tramontò in pochi anni. Ciò significa che se avessi iniziato la scuola tre anni dopo ora scriverei con la mano “giusta” con conseguenze psicoattitudinali che qualche neuroscienziato saprebbe forse descrivere.
TECNOLOGIE DIGITALI E SCELTE CULTURALI
Questo lontano e marginale episodio personale mi viene spesso in mente di fronte alla rivoluzione tecnologica digitale che preme sulla scuola. Nel senso che continuo a percepire la tecnologia come opportunità e come liberazione di energie espressive e non come imposizione. Nei confronti della rivoluzione digitale (perché tale è nelle modalità e negli stili della comunicazione) e delle sue conseguenze sulla didattica troviamo un ventaglio molto ampio di posizioni: dall’idea che la scuola debba tutelare sé stessa dalle novità in quanto la sua missione identitaria consisterebbe nel tramandare la tradizione culturale, all’uso “opportunistico” delle fonti digitali comunque incanalate nel solco di una didattica consolidata, alla teoria che il digitale modifichi nel profondo i paradigmi di apprendimento (e quindi dell’insegnamento). L’intero ventaglio di tali posizioni era presente, ad esempio, nel recente convengo del PD scuola dedicato appunto ai nativi digitali (con ovvio sbilanciamento sulle posizioni più innovative). È il segno di una questione di grande interesse ancora però non digerita e sulla quale si devono ancora prendere le misure. In questo senso mi sembra molto equilibrato e interessante il recente intervento di Franco De Anna su queste pagine, “A proposito di scuola digitale”, che mette in evidenza la portata della rivoluzione digitale sugli schemi, sui luoghi e sulla stessa organizzazione dell’apprendimento scolastico. E questa rivoluzione avviene non perché la nuova tecnologia implichi una diversa didattica, ma solo perché la rende possibile e opportuna, quando non necessaria. In altre parole, la tecnologia amplifica la possibilità di scegliere, ma come scegliere e quali direzioni intraprendere spetta ai soggetti della sella scuola.
OPPORTUNITÀ NUOVE PER SCELTE ANTICHE
Per questo sono rimasto sorpreso che dalle innovazioni tecnologiche, in taluni interventi nel citato Convegno (a iniziare da quello di Marc Presky, inventore della locuzione “nativi digitali”) si facesse linearmente conseguire – e sottolineo l’avverbio perché paradossalmente per molti suoi aedi la cultura digitale costituirebbe il superamento del “pensiero lineare” – una didattica non più frontale ma relazionale e comunicativa, un apprendimento non più nozionistico ma aperto e dinamico. Chi ha vissuto (o comunque chi conosce) il dibattito educativo degli ultimi trenta-quaranta anni sa perfettamente che la critica all’insegnamento tradizionale, unidirezionale, e all’apprendimento seriale parte da lontano, anche prima della importante riflessione degli anni Settanta: parte dai fondatori della pedagogia moderna, da Dewey, da Montessori, da Castelnuovo e molti altri. Niente di nuovo sotto il sole, dunque? Non è così perché se le questioni si ripresentano vuol dire che non sono state risolte ed è noto che – per un insieme di ragioni troppo complesse per essere qui affrontate – , le “buone pratiche”, la didattica relazionale sono sempre stati minoritarie, in Italia e altrove, sommerse anche dal ritorno alla tradizione e alla convenzione della metà degli anni Ottanta. Oggi però le nuove tecnologie tolgono molte delle scuse per rimanere abbarbicati alle vecchie tradizioni. Le opportunità sono sotto gli occhi di tutti: chi può oggi ragionevolmente opporsi a un lavoro concertato, autonomo degli studenti che possono interagire a scuola e dovunque tra loro, possono consultare e organizzare archivi e costruire originali e complessi percorsi ideativi? Anche sulla sperimentazione di strade di apprendimento che non si “limitino” al pensiero lineare (che non si deve confondere con il pensiero causale, come qualcuno ha fatto nel convegno…) non si era di certo obbligati ad aspettare le innovazioni tecnologiche: i grandi del pensiero filosofico novecentesco, Wittgestein, Gödel, Morin, Prigogine, e molti altri qualcosina in proposito l’avevano già detta. Tuttavia la possibilità di manipolare materiali reticolari, di mettere insieme relazioni multiple, afferenti a linguaggi diversi (formali, simbolici, visuali) offerta dalle nuove tecnologie rende più facile e opportuno imboccare strade già segnate dai grandi pensatori del passato.
LA FORZA MODIFICATRICE DELLE TECNOLOGIE DIGITALI
È dunque chiaro, come sostiene giustamente De Anna, che le nuove tecnologie hanno la forza di incidere profondamente sui modi dell’apprendere: basti pensare quanto profondamente incide sull’apprendimento la possibilità di accesso ad archivi virtualmente infiniti, nel senso qualitativo della organizzazione della memoria e non solo in quello quantitativo; quella che De Anna chiama la decostruzione enciclopedica. La presenza di una memoria esterna sedimentata e strutturata costituisce una vera e propria protesi dell’intelligenza umana che, potendo accedere ai dati in qualunque momento e dappertutto, può liberare sé stessa dalle incombenze dell’affaticamento mnemonico e dedicarsi ad attività più speculative. È rischioso? C’è il pericolo di perdere la capacità di memorizzare? Certo che è rischioso, se viviamo la tecnologia come sostitutiva e non integrativa dell’attività umana. E su questo la polemica non è certo nuova: Platone era critico verso la scrittura (i libri sono la prima, straordinaria, protesi fisica della intelligenza umana) perché riteneva che avrebbe avuto conseguenze negative sulla memotecnica, indispensabile nella tradizione orale. In parte aveva ragione perché delle qualità di pensiero si sono via via perse ma sicuramente sottovalutava l’enorme potenza intellettuale che si sarebbe sviluppata dalla scrittura, per non dire della diffusione sociale della cultura e quindi dello straordinario aumento della intellettualità generale dell’uomo. Ancora una volta oggi la tecnologia è in grado di liberare potenzialità, convogliando energie su aspetti che l’uomo aveva accantonato, per economia di forze. Ma non si deve opportunisticamente affidare la svolta all’automatico incedere degli eventi tecnologici, perché in tal caso i mutamenti rimarrebbero in superficie e si perderebbe scienza senza acquistare coscienza. L’innovazione rimane sempre una libera scelta (politica, oserei dire) di soggetti responsabili che devono decidere il come e il dove: ora si può scrivere con la mano sinistra, ma a scegliere siamo sempre noi.
Andrea Turchi