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Le parole sono lacrime

Pubblicato il: 18/03/2020 07:20:30 -


Nei giorni in cui le carceri sono sconvolte da tanto dolore, tanta rabbia e da tante pressioni interne ed esterne, l'articolo mostra come l'opportunità di scrivere sia uno strumento di educazione e di comunicazione vera ed analizza la relazione educativa tra docente e discente, dove si mescolano cultura e sincera, umana emozione .
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“Oggi non c’ho testa”.

Quella mattina sono entrato nella mia classe del corso di primo livello al terzo piano del Blocco “C” della Casa Circondariale Lorusso-Cutugno di Torino con più entusiasmo del solito[1]. Come ogni giorno, da qualche mese, cerco subito lo sguardo vispo, sempre perso tra le auto sfreccianti nella vicina tangenziale incastonata tra le grate delle finestre e il grande termovalorizzatore dell’Iren a Torino nord. Mattia oggi non c’è. Da circa tre mesi frequenta il mio corso di italiano pur avendo già un diploma superiore. Si siede in fondo, ascolta in silenzio e guarda fuori. Ogni tanto alza la mano e interviene sempre a proposito, con voce sicura e il sorriso, dimostrando non solo di seguire la lezione ma anche di avere sedimentato gli aspetti strumentali della lingua, di saperli riconoscere ed usare perfettamente. Guai però a porgli qualche domanda, perché lui la vive come una fregatura e subito si ritrae con la solita risposta: “Prof, oggi non c’ho testa”.

Ebbene quella mattina non c’era e non me ne sono preoccupato perché ho immaginato potesse avere un colloquio con il suo avvocato o con qualche famigliare. Inizio la mia lezione e dopo una decina di minuti un agente apre il blindo e fa entrare Mattia, o almeno quel che resta di lui. Vedo entrare un fantasma, totalmente imbottito di psicofarmaci, bianco cadaverico con le occhiaie di chi non dorme da giorni, con lo sguardo fisso a terra e gli occhi umidi. Si siede, per la prima volta tra i primi banchi. In classe si fa un silenzio irreale, tutti sentiamo un brivido sordo e attoniti, gli studenti guardano Mattia ed io, a stento riesco a pronunciare un “riprendiamo la lezione”. Prendo un foglio bianco e una penna e le sporgo a Mattia che non guarda fuori, fissa il banco con le braccia penzoloni lungo il corpo. Spero lui disegni qualcosa, o strappi il foglio, o ne faccia una barchetta, faccia qualsiasi cosa purché torni tra noi. Piano piano la lezione riprende normalmente e Mattia, effettivamente reagisce, prende una penna e inizia a scrivere come non aveva mai fatto fino ad allora. Le mie parole allora si fanno più sicure, e tutto torna normale, se di normalità si può parlare in quelle condizioni. Alla fine della lezione, tutti si alzano, e vengono a salutarmi uno a uno, chi mi chiede la lettura di un’istanza, chi una domandina, lui rimane per ultimo, poi si avvicina, alza lo sguardo, mi consegna la lettera scritta a sua madre, deceduta un mese prima, mentre lui era già in carcere, e di cui aveva saputo solo da 48 ore. Io leggo solo le prime parole, lo abbraccio forte e lo vedo uscire per non vederlo mai più perché la mattina dopo alle cinque e mezza è stato sfollato assieme ad altri detenuti.  Inutile dire che quella lettera mi ha letteralmente cambiato. Mi ha riorientato verso le radici, verso la fonte primordiale del senso del mio lavoro e delle conoscenze, degli strumenti, dei contenuti e dei processi.

La lettera che Mattia ha scritto a sua madre non era solo un potentissimo e sofferto messaggio d’amore e di addio ma era anche un modello di estrema correttezza sul piano formale, grammaticale, ortografico, morfosintattico.

“Percorsi di approccio ai testi tra le sbarre e la vita”

Quella lettera mia ha detto e continua a dirmi moltissime cose. Prima di tutto mi ha sbattuto in faccia quanto l’educazione agisca nell’interiorità della coscienza. Il Cristianesimo ha scoperto la libertà positiva perché ha innalzato la persona al valore universale. In quel momento di grande sofferenza Mattia ha sentito il bisogno di scrivere come non faceva mai in classe, e nel maneggiare, scegliere, limare le parole ha espresso tutto il bagaglio di conoscenze che possedeva arrampicandosi con le unghie fino a dominare anche quelle che non aveva trattenuto nella memoria e nemmeno nell’immaginazione e nella coscienza. Il bene per sua mamma è divenuto il valore assoluto del suo tempo ma anche il principio fondante dell’atto creativo della scrittura. La scrittura è tecnologia del sé, permette di comprendere se siamo davvero ciò che pensiamo di essere[2]. La scrittura permette infatti con-sente sempre uno svelamento. Permette di scoprire e riscoprire continuamente il bagaglio noto e non noto dello scrittore e mette in evidenza la giusta distanza da sé in quella che gli studiosi definiscono bilocazione cognitiva. Lo scrivere è un’autentica finestra dell’interiorità di ciascuno, “altra” nei riguardi di tutti e di tutte le precedenti scritture, da quelle parallele e dalle storie succedanee che seguiranno trascritte in un tempo futuro. La scrittura rende più visibile la realtà invisibile che interconnette le parti più insondabili della nostra identità, materializzando così gli indizi raccolti in voci più o meno vaghe e incerte. Lo scrivere obbliga a pensare e non solo ad interloquire. Quindi l’educatore autobiografo non si limita ad ascoltare ed incentivare la narrazione sulla storia di vita dell’allievo, ma è un protagonista che custodisce una narrazione sollecitando l’allievo nella continuazione della trascrizione, per cui la scrittura nella sua visibilità si traduce in segni e simboli, nella creatività appronta nuove invenzioni, nella metodicità comporta pazienza e precisione, e sviluppa catarsi, pensiero e modalità affettive[3]. Come giustamente afferma M. Augé l’alterità totale non esiste e non esiste nemmeno un contesto spazio temporale che la possa definire . Esiste l’Alterità lontana ma che sempre congiunge le parti di vicinanza. Non “che cosa” è ciascuno, ma “chi” è: si potrebbe sintetizzare così la categoria di “unicità” elaborata da Hannah Arendt[4]. In una delle scene più belle dell’Odissea, Ulisse si trova al cospetto dell’ombra di sua madre.[5] È il momento delle lacrime e della rinascita dell’eroe umano, non più semidivino edulcorato dai lumi del firmamento. Nell’intera Odissea, sono innumerevoli in momenti in cui si manifesta la forza rituale del pianto, sempre associato con il ricordo. Ulisse piange tre volte. L’eroe di Troia, che ha affrontato addirittura la discesa all’oltretomba, piange tentando di abbracciare l’ombra della madre. Piange alla morte del cane Argo, l’unico che lo riconosce, appena tornato a casa, piange davanti al vecchio padre Laerte. Lo trova piegato a zappare la vigna, sudicio e con un berretto di capra in testa, e a stento trattiene il pianto[6]: l’Odissea rimarrà per sempre l’epica del ricordo e del pianto del vagabondo, ed Ulisse ne sarà il simbolo eterno e assioma del percorso terrestre di ogni essere umano[7]. Ricordo che negli anni dell’Università mi imbattei in un per pezzo di Pietro Citati in cui, parlando dei dolori di Ulisse scriveva: “al rischio estremo Ulisse non cede mai, nemmeno quando a Trinachia i suoi compagni scatenano la collera degli dei, ed egli resta solo nel mare. Come dice Eschilo, egli impara a conoscere attraverso la sofferenza: gli strati accumulati del dolore producono la sua arte suprema: la pazienza ostinata, la coraggiosa sopportazione. Così apprende la pietà e la giustizia; e ciò che gli dei pretendono soprattutto da noi: che non accettiamo quanto essi ci mandano – fosse pure la più atroce delle sventure. Sopporta, china il capo, sino in fondo. Non dice mai no: non protesta, non si ribella: vive in accordo col proprio destino; e da questa profonda accettazione, trae se non gioia, una serenità grave. Mentre si addossa il peso di tutte le cose, diventa «duro». Impara (non sempre) a dominare le passioni. Lui così molteplice e flessibile, si irrigidisce, per difendersi dagli assalti della sorte. Il suo cuore diventa di sasso, e gli occhi imparano a rimanere immoti tra le palpebre, duri come il corno o il ferro, davanti agli spettacoli che lo commuovono più profondamente. Tutto l’ universo odissiaco – Ulisse, Penelope, Euriclea (non Laerte) – è di roccia e di ferro. Malgrado o a causa dei suoi furori, Achille non conosce questa compattezza [8].  È ciò che piange il Giudeo che subito dopo il ritorno dall’esilio di Babilonia, ricorda le sofferenze subite in schiavitù, e spera nella ricostruzione di Gerusalemme. L’orante presenta il pianto degli esiliati, le umiliazioni, la determinazione con la quale appesero le cetre ai salici, vincolandosi di non cantare mai davanti agli oppressori i Canti di Sion. Lo scherno, l’insulto, l’attentato alla fede, sono espressi in maniera estremamente efficace: “Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato…”[9]. Ma il vero pianto catartico è quello di Achille e Priamo, l’anziano re che si reca nella tenda dell’eroe per chiedere che gli venga restituito il corpo del figlio Ettore[10]: Qui, più che in ogni altra pagina del poema, non ci sono più buoni e cattivi, ma soltanto uomini che soffrono. Riassumendo mi pare importante sottolineare quanto il pianto tragico diviene vera e propria “autorità educativa”, insegnamento sull’uomo e le sue emozioni e persino fonte di vita nuova. Il pianto diviene principio fondativo di un metodo di scrittura perché anche dove non produca scrittura autobiografica lascia nella memoria grafica-oculare una matrice procedurale autentica, asciutta, centrata, snella e, nell’insieme, scorrevole. Si può allora lavorare poi sui campi semantici o sulla morfosintassi ma sempre a partire da motivazione e struttura. Lo studente elabora informazioni, usa strategie di pensiero, costruisce forme di conoscenza. L’apprendimento allora è rivolto alle strutture, cioè alle idee-guida di un sapere disciplinare, consentendo alle discipline di migliorare i processi cognitivi[11]. L’insegnamento rimane oggetto culturale, capace di legittimare il ruolo dell’insegnante. L’educazione assume un ruolo fondamentale per affrontare la disnomia dei valori ossia quella mistificazione ideale e pratica al di fuori dell’ordine sociale. Promuove l’intenzionalità valoriale, affinché diventi la motivazione dell’educare. Il Valore reale è sempre l’uomo che diventa capace di farsi persona. C’è alla base una fiducia estrema nella possibilità di redimibilità ed educabilità. Quando Mattia tornerà libero, dopo aver sofferto e aver ri-cordato tutti i passaggi cruciali della sua esistenza avrà fiducia e saprà vedere nella sua storia il dono su cui costruire il presente giorno dopo giorno. Si arricchirà di umanità rinnovata e si sentirà rafforzato nella volontà di promuovere ed accrescere il vero, il bene, il bello, il giusto nella sua quotidianità [12]. L’Odissea rimarrà per sempre l’epica del ricordo e del pianto del vagabondo, ed Ulisse ne sarà il simbolo eterno e assioma del percorso terrestre di ogni essere umano ed io ho avuto la fortuna di incontrarlo dal vivo.

“Perchè piangi?” “Non sto piangendo, sto ricordando”[13]

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[1] Lavorare in carcere, soprattutto per chi ha una propensione all’empatia (tratto peraltro distintivo e irrinunciabile di un professionista dell’educazione), mette veramente a dura prova la salute psicofisica. L’ambiente carcerario è di difficile narrazione: posso solo dire che ritengo urgente una revisione degli accordi tra Prap e Usr alla luce degli evidenti abbandoni a se stessi del personale docente nelle sedi carcerarie. Come ha evidenziato il Prof. Davide Petrini intervenuto in un recente Convegno Nazionale sulle scuole carcerarie organizzato dall’USR del Piemonte, tutti i momenti alti degli accordi tra Miur e Ministero di Grazia e Giustizia sono tarpati da connettivi come: “ove possibile”, “se possibile”; “compatibilmente con la sicurezza”  e così via. Tutto il buono che la scuola può far entrare nel percorso trattamentale  del detenuto è sostanzialmente demandato all’ispettore quando non addirittura all’agente di turno.

[2] Duccio Demetrio, Scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, R.C.E.

[3] L’educatore non si limita ad interagire con la sofferenza o il disagio emotivo o cognitivo, ma il suo compito è quello di perturbare il passato, il presente e il futuro della narrazione, della storia di vita e quindi dell’allievo stesso che si racconta, per ricondurlo a se stesso, conducendolo alla percezione delle proprie capacità e modalità creative, attraverso la narrazione scritta e orale, ricordando che è possibile parlare per molto tempo senza accorgersene, ma è sufficiente un breve scritto scaturito dalla nostra interiorità per concepire il senso del limite personale, oppure la qualità delle capacità insite nel nostro ingegno. Vedi L. Tussi La bilocazione cognitiva in https://www.ildialogo.org/cultura/bilocazione06012005.htm

[4] In una prospettiva femminista, in Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Cavarero Adriana, afferma l’unicità come principio fondante

[5] Omero, Odissea, XI, 152-207 in: Giovanna Bemporad, Odissea, ERI, Torino, 1970

Disse; io tentai, con l’animo in tumulto, la madre morta stringere al mio petto. Tre volte mi slanciai, spinto dall’ansia di afferrarla, e tre volte dalle braccia mi volò via, simile ad ombra o a sogno; sempre più mi cresceva in cuore acuto strazio, e a lei mi rivolsi supplicando: “Madre, perché non resti, se io mi struggo di abbracciarti, così che entrambi al collo gettandoci le braccia, anche nell’Ade, gustiamo l’acre voluttà del pianto? O forse a me questo fantasma l’alta Persefone ha mandato, perch’io debba più forte ancora piangere e dolermi?

[6] C.f.r “L’animo a lui si commosse, guardando suo padre, e alle nari gli irruppe uno stimolo acre”.

[7] C.f.r “Dopo cena Demodoco ha preso la cetra e ha cominciato il canto: ahimè, ha cantato della lite tra me e Achille a Troia e non ho potuto trattenere le lacrime, nonostante la vergogna di essere visto.

[8] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/09/10/tutti-dolori-di-ulisse.html?refresh_ce

[9] Salmo 136, Sacra Bibbia.

[10] “Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa”.

[11] In Teoria dell’Istruzione del ’67, J.S. Bruner considera le discipline forme dell’attività intellettuale dello spirito umano; la loro struttura si pone come principio di bellezza e semplificazione, quindi di interesse e apprendimento.

[12] Importante è approfondire le riflessioni che fa Gherardo Colombo, sul “fine pena mai” nel nostro sistema penitenziario. Vedi https://www.sulleregole.it/

[13] Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia.

 

Antonello Marchese – Centro Regionale Ricerca Sperimentazione e Sviluppo del Piemonte

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