Rapporto Censis 2020: la società italiana di fronte al covid
Il 54° rapporto Censis arriva anche quest’anno puntuale nella prima metà di dicembre, anche se la presentazione avviene, come ormai purtroppo ci stiamo abituando, a distanza. Le considerazioni generali entrano in medias res con una suggestiva metafora, Nella giravolta della storia, che riassume una situazione in cui il luogo sociale delle nostre esistenze si trasforma nella rappresentazione «di un fenomeno da osservare più che uno spazio nel quale ricostruire una stabilità complessiva». Una società, che negli ultimi anni ha già prodotto differenze sempre più macroscopiche, si trova a vivere un cambiamento inedito perché le drammatiche nuove difficoltà accentuano diversità di reazione, di capacità e possibilità di difesa. Un modello sociale fragile, con limitate, seppure ancor presenti, prospettive di ripresa, ha messo in luce enormi difficoltà e debolezze, che ,nel corso del 2020, si sono manifestate nell’assenza di una visione chiara verso cui indirizzare provvedimenti di emergenza, e iniziative capaci di resistere al di là dell’oggi. L’elenco dei provvedimenti intrapresi, dai bonus e sussidi, al blocco dei licenziamenti, alla cassa integrazione in deroga e quant’altro, presenta deboli barriere in difesa dei soggetti più esposti, mentre si accresce la voragine del debito pubblico, la riduzione della produzione , il restringimento in termini quantitativi e qualitativi delle politiche di welfare . Non solo le future generazioni pagheranno tutto questo, ma una crisi profonda rischia di cadere sui cittadini ,che già oggi vedono un confuso futuro vicino e si percepiscono privi di un qualche orientamento. Rispetto ad un atteggiamento cautamente ottimistico, che spesso si è letto nei rapporti Censis, quest’anno si avverte grande preoccupazione, un allarme quasi, nel caso che la ‘mano pubblica’ non risulti capace di sviluppare azioni di sistema attraverso interventi mirati al risanamento dei vari settori dell’economia e di dare coerenza a provvedimenti rivolti alla società nel suo insieme.
Quattro sono le direzioni che il Rapporto indica come prioritarie: 1) riforma fiscale per porre fine a un sistema che in ultimo punisce gli onesti e avalla e copre l’illegalità; 2) investimenti mirati a una produzione industriale fondata sulla innovazione e volta alle esportazioni, funzionale allo sviluppo organico della ricerca scientifica e tecnologica; 3) riequilibrio strutturale dei diversi territori, perché, accanto alla storica questione meridionale oggi appare una questione settentrionale, tanto che in questo nuovo scenario tutto il sistema produttivo italiano rischia la marginalizzazione nel nuovo contesto europeo; 4) una revisione di ruoli, competenze, compiti e funzioni del terzo settore, protagonista significativo negli interventi sociali che non può tuttavia essere relegato a soccorso d’urgenza di fronte all’incapacità di un’azione pubblica inefficiente.
L’istruzione
Le informazioni e le considerazioni relative alla scuola muovono dall’indagine, che negli anni il Censis svolge interrogando un campione di dirigenti scolastici. I 2.812 dirigenti scolastici (il campione ne raggiunge circa il 30% arrivando al 35% se si escludono i Cpia e le reggenze), interpellati ad aprile 2020, presentano così la scuola di fronte alla sospensione della didattica in presenza: l’82,1% rileva le diversità di strumentazioni tecnologiche e la non omogenea familiarità d’uso sia dei docenti che degli studenti; più del 10% degli studenti risulta disperso nel 18% degli istituti e il 74,8% dei dirigenti nota un notevole ampliamento delle differenze di apprendimento. Per l’85,4% degli interpellati l’impegno richiesto ai genitori risulta essere concausa delle diversità di apprendimento: questo impegno varia per livello di scuola, per gli alunni delle scuole del primo ciclo viene osservato dal 94,4%, e dal 67,6% per le superiori. C’è una tipologia di studenti per i quali la socialità che si instaura nelle aule scolastiche è insostituibile, e questo riguarda soprattutto la condizione degli alunni con disabilità (270.000 nelle scuole statali) o con disturbi specifici dell’apprendimento (circa 276.000): e’ il 53,6% dei dirigenti che sottolinea il problema, e ancora il 37,4% vede a rischio la realizzazione di interventi di contrasto alla povertà educativa e di prevenzione della dispersione scolastica. Se poi si osservano gli oltre 800.000 studenti non italiani di prima generazione (circa il 47% del totale), appaiono grandi difficoltà per ragioni linguistiche e culturali.
In conclusione, fare un bilancio complessivo dell’esperienza dell’era Covid appare difficile perché sulla disomogeneità degli interventi pesa la difformità dei contesti e delle condizioni: questo il giudizio del 61,1% dei dirigenti; tuttavia il 95,9% è molto o abbastanza d’accordo sull’utilità della DAD come esperienza di insegnamento e l’84,3% pensa che in futuro sarà utile ricorrervi, ma in modo integrato con le attività di aula in presenza. Alla ripresa dell’anno scolastico 2020-2021 non si è avviata alcuna riflessione sugli aspetti innovativi di una didattica che si potrebbe giovare del digitale e da una diffusa disponibilità di strumentazioni tecnologiche, perché il dibattito pubblico è stato segnato , ed è ancora segnato, dalla cautela volta a preservare la salute pubblica, mettendo in secondo piano le conseguenze dell’emergenza covid-19 sull’esercizio del diritto allo studio e sulla necessità di preservare l’inclusività della scuola.
La formazione
Un’attenzione particolare del rapporto 2020 è rivolta alla filiera della Istruzione e formazione professionale, corsi triennali o quadriennali finalizzati all’acquisizione di qualifica (EQF3) o di diploma professionale (EQF4); la rilevazione , che ha coinvolto 115 tra direttori e operatori dei Centri di formazione professionale, è particolarmente interessante per due motivi: alcune delle strutture della filiera erano già attrezzate per operare in modalità FAD (Formazione A Distanza), mentre, per questa filiera, didattica in presenza significa lezioni in aula, attività di laboratorio e stage. I giovani coinvolti in questa tipologia di corsi erano circa 300.000 e la distribuzione territoriali vede la maggiore concentrazioni nelle regioni del Nord e del Centro (Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche). Le Regioni in genere hanno predisposto linee guida specifiche che, nella prima fase di lockdown, ha permesso, in molte situazioni, secondo il 71,4% degli intervistati, di presentare rapidamente, massimo due settimane, una modalità di lavoro Fad, il 6,3% constata tuttavia che le attività formative dei centri sono state completamente interrotte.
Per quanto riguarda i laboratori e gli stage, si rileva che sono stati in genere sostituiti con la modalità Project working: dal 68,1% per i laboratori e dal 73,5% per gli stage. Tuttavia il 72,1% lamenta l’assenza di una regia unitaria a livello nazionale che ha reso disomogenei interventi rendendoli spesso poco efficaci per una popolazione scolastica che proviene talora da percorsi scolastici discontinui o irregolari, da contesti socio-economici e culturali fragili e anche in condizioni di disabilità.
Il bilancio è solo parzialmente positivo, anche se quasi l’80% degli intervistati sottolinea l’impegno nella formazione dei formatori, eanche la collaborazione dei corsisti.Differenza nelle dotazioni tecnologiche e stato delle connessioni internet domestiche hanno impedito la fruizione delle proposte, e lo stesso supporto delle famiglie è stato molto esiguo; tutto questo , secondo il 40% degli intervistati ha causato il progressivo allontanarsi dei giovani dalla partecipazione attiva, anche se non pare che gli abbandoni siano aumentati e, in più di un centro su 5, il fenomeno non si è verificato. Il bilancio della esperienza sottolinea luci e ombre, comunque quasi l’80% degli intervistati pensa che la FAD ha aperto nuove prospettive per questi percorsi professionalizzanti, ma le preoccupazioni maggiori riguardano la difficoltà delle aziende ad accogliere stage e tirocini (79%), elementi essenziali a supportare percorsi efficaci di transizione tra formazione e lavoro: il problema riguarda tutti, ma diventa più grave per gli studenti fragili.
Il ruolo del terzo settore
Conclude il capitolo relativo a scuola e formazione, in linea con la prospettiva interpretativa di questo rapporto Censis, il ruolo svolto dal terzo settore come supporto nell’emergenza educativa. Nel corso degli anni è progressivamente aumentata l’attività di enti no profit (+ 6.9% rispetto al 2015), riguardando poco meno di 844.000 dipendenti. Il Censis registra che il 41% di questi enti ha realizzato ulteriori attività nei territori per sostenere le nuove povertà prodotte dalla pandemia. Hanno attivato l’ascolto telefonico e la distribuzione di alimenti (20,3% e 10,6%); l’impegno nei settori dell’educazione e dei servizi di supporto alla didattica on line e di sostegno alla socialità dei minori hanno rappresentato il 31,5% e il 19% delle nuove attività. Gli alunni delle scuole primarie e secondarie coinvolti dalla nuova offerta di attività sono stati il 76,2%, a cui si sono aggiunti i bambini da 0 a 6 anni (49%). Oltre a questo, la lotta alla povertà educativa di minori e non solo, si è realizzata nell’offerta di attività artistiche e culturali on line (il 25,2% della nuova offerta), la distribuzione di strumenti elettronici e multimediali, fondamentali per l’erogazione della didattica a distanza (14,5%).
Vittoria Gallina