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Rapporto Censis 2012: l’Italia che resiste

Pubblicato il: 19/12/2012 17:13:54 -


La gravità della crisi pone al centro il problema della sopravvivenza. Dal Rapporto Censis 2012, emerge l'idea di “restanza”, la volontà di conservare e valorizzare il meglio prodotto in passato, contro la severità e l’incomunicabilità delle attuali istituzioni.
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“Restanza”, questa è la parola/concetto intorno al quale il rapporto Censis 2012 sulla situazione sociale del Paese costruisce l’interpretazione di quanto è accaduto e sta accadendo in Italia. Parola di sapore antico, che il Devoto Oli non registra e che rimanda per un verso a Derrida (“résistance”, privata della seconda sillaba, “restance”, e italianizzata) e dall’altro a studi etno-antropologici ispirati al grande meridionalista E. De Martino.

Capacità di riprendere, salvare, valorizzare tutto quello che resta funzionante rispetto a quanto è stato prodotto e ha prodotto cambiamento positivo nel passato: questa è la cifra proposta per la lettura del 2012. È un modo per sintetizzare comportamenti diversi, che esprime la reazione di tutti i soggetti sociali ed economici, individui e gruppi, e delle stesse istituzioni. La complessa gravità di fenomeni e nello stesso tempo la loro impersonalità (il potere dei mercati, ma non solo) ha prodotto una crisi di sovranità: nello stesso momento la popolazione si è sentita senza difesa, impaurita di fronte a crescenti preoccupazioni, che anche la classe di governo ha vissuto, ma tutto questo è avvenuto in due mondi paralleli, non comunicanti. Il rapporto parla di “parallela discontinuità”. La severità della politica governativa, la solitudine dei soggetti sociali ed economici, tutti sono stati impegnati nella ricerca di strategie di sopravvivenza, di fronte a sacrifici e restrizioni prodotte dalle politiche di rigore. I rischi di questo incomunicante parallelismo sono davanti ai nostri occhi: il generarsi di poteri oligarchici, da una parte, e le tentazioni di populismo, anche “rancoroso”, dall’altra. Il necessario scatto di discontinuità politica rispetto ai modelli di comportamento, pubblici e privati, degli ultimi anni c’è stato, ma i soggetti sociali sono rimasti estranei all’azione del governo poco fiduciosi, in strategie tecnico-politiche cui difficilmente sarebbe seguita un’adeguata implementazione amministrativa e organizzativa. “Non è scattata la magia dello sviluppo fatto da governo e popolo” e il rigore di governo “non ha avuto lo spessore per generare forza psichica collettiva”. Non è l’immagine del buon governo capace di unire città e campagna, di dare coesione rimettendo ordine in una cosa pubblica sconvolta dal malgoverno, quella pacificazione che Ambrogio Lorenzetti ci ha consegnato nel palazzo pubblico di Siena. La divaricazione tra spazio di vita e di responsabilità pare ormai un pericoloso dato di fatto: da un lato le strategie di “rigore” della politica e dall’altro le strategie della sopravvivenza, da un lato “pastori che pascolano se stessi” (Ezechiele, 34) e dall’altra soggetti sociali che, disordinatamente attivi, continuamente cercano riposizionamenti in un mondo pericolosamente mutevole e scarsamente accogliente. È qui che la fiducia nelle tradizionali risorse di una società che pratica l’antica virtù della restanza sembra eccessivamente ottimistica, perché i rischi connessi con l’apparire di prospettive oligarchiche e di pericolose derive populistiche restano comunque reali, anche se lo scenario pubblico riesce a registrare elementi positivi, capaci di produrre impegno personale, solidarietà diffusa, valorizzazione del territorio come volano di un sistema che potrebbe rimettersi in moto.

Anche l’analisi dei processi formativi in atto non scioglie le incertezze e non risolve le ambiguità. Il monitoraggio annuale registra l’aumento dei livelli di scolarizzazione della popolazione italiana, la diminuzione dei cittadini che hanno solo la licenza elementare (i più anziani), l’aumento dei diplomati (28,8%), l’incremento della scolarizzazione femminile (le donne laureate tra i 25 e i 29 anni sono il 26,6% delle coetanee, contro il 17% dei maschi). La presenza di alunni con cittadinanza non italiana aumenta del 6,4%, rispetto all’anno precedente (gli alunni stranieri nati in Italia sono il 42,2% del totale e il 3,3% della popolazione scolastica complessiva); nello stesso tempo diminuisce il numero di immatricolati all’università (-2,2% nel 2010-2011 rispetto all’anno precedente) e persiste la riduzione, in termini di corsi e di frequentanti, degli adulti che partecipano a percorsi di istruzione. In particolare diminuisce la partecipazione degli occupati, soprattutto delle occupate, alla formazione continua. L’Italia resta ancora al disotto della media europea Ue21 (83,2% contro 86,6%) e della media Ocse (84%) per quanto riguarda la popolazione in possesso di diploma. La novità, presentata come frutto dei riordini dell’istruzione post obbligo, al di là dei tagli, è la nascita di una filiera di istruzione/formazione tecnico-professionale integrata soprattutto in virtù della attività di istituti di istruzione secondaria che, dal basso, costruiscono reti e cercano di proporre un’offerta formativa vicina alle esigenze del tessuto produttivo e del lavoro (l’80,5% degli istituti professionali, il 79,3% dei tecnici, il 65,8% dei licei). In circa la metà di queste realtà si potrebbe parlare di veri e propri poli formativi e nel 14% di distretti formativi, con l’apporto delle fondazioni ITS (Istruzione Tecnica superiore) per il 16,1%.

Tutto bene allora? Non pare proprio. La maggioranza dei dirigenti scolastici (66,8%) interpellati dal Censis, ritiene che la debolezza delle reti stia nella mancanza di disponibilità di risorse finanziarie certe e pluriennali, nella criticità dei rapporti con il tessuto imprenditoriale (44%), e nella complicata e ridondante organizzazione degli organismi d’indirizzo e controllo (25%). La complessità di procedure e la difficoltà di gestione sono denunciate anche dalle scuole che in tutto il territorio (da notare la presenza di istituti del Sud) partecipano a progetti europei e producono offerte formative in una prospettiva di internazionalizzazione della formazione secondaria. Al di là dell’impegno di chi vede nell’apprendistato la via per l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, i dati non sono confortanti. Nel triennio 2008-2010 il numero medio di apprendisti occupati si è contratto del 16%, da 645.000 a 542.000. Si conferma inoltre la preferenza delle imprese per i giovani maggiorenni, che devono fare meno formazione esterna e godono di minori necessità in relazione alla sicurezza sul lavoro. Nel 2010 si registrano solo 7.702 contratti di apprendistato stipulati con minori (sono l’1,4% del totale) e nel triennio si assiste a una notevole contrazione di tale segmento (-57,1%). Negli anni accademici 2006-2007 e 2010-2011 si evidenzia una riduzione del 6,5% di immatricolati all’università, eppure non si registrano variazioni demografiche né riduzione dei diplomati (il numero di diplomati aumenta del 2,2% nel quinquennio). L’attrattività delle università varia tra regione e regione; ai primi posti si collocano la Lombardia (17,9 iscritti da fuori regione ogni 100 iscritti), il Lazio (16,7%) e l’Emilia Romagna (15,7%). Le regioni che disperdono più facilmente i propri universitari sono la Puglia, la Sicilia (10,5%), il Veneto e la Campania. Non si può negare tuttavia che l’istruzione e la formazione abbiano conquistato un certo spazio nell’agenda politica ma, al di là dei guasti prodotti dalle logiche di spending review, applicate anche in questo settore, la farraginosità degli interventi e la poca trasparenza di alcune scelte chiede tempo perché il sistema si stabilizzi e trovi coerenza. Per certi versi appare sorprendente che il livello di motivazione degli operatori si mantenga abbastanza elevato, ma sicuramente la categoria è sotto stress da troppi anni ed il rischio di disorientamento e di disaffezione potrebbe avere effetti dirompenti.

Vittoria Gallina

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