Per una didattica oltre le barriere
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Come è nata la didattica a distanza
Ciò che in Italia, in piena pandemia COVID 19, viene identificato sia dai media sia dalle istituzioni con l’espressione “didattica a distanza” può essere ricondotto, con le dovute cautele, a un ambito di ricerca e di pratiche educative tanto noto quanto rilevante, sia dal punto di vista pedagogico sia da quello sociale: la distance education (d’ora in poi DE). La sua storia nasce dalla necessità di superare le barriere di spazio e di tempo che si frapponevano tra chi insegnava e chi apprendeva. In altre parole, la DE è stata concepita e realizzata per estendere l’accesso all’istruzione anche a coloro che ne erano esclusi, soprattutto per ragioni geografiche. Non è un caso che le primissime esperienze (istruzione per corrispondenza) siano nate in paesi dove le distanze geografiche che separavano i cittadini dalle scuole erano enormi, come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, l’Unione Sovietica.
Successivamente si è fatto ricorso alla DE per superare le difficoltà di accesso all’istruzione di particolari categorie sociali come quelle dei detenuti e delle persone ospedalizzate. Infine, all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso la Open University del Regno Unito è nata con una finalità ben precisa: favorire l’accesso all’istruzione da parte di lavoratori che in precedenza ne erano stati espulsi. Per comprendere le motivazioni sociali che stanno dietro la nascita di questa istituzione, tutt’oggi una delle più prestigiose al mondo, è bene ricordare che essa è avvenuta grazie alla spinta delle organizzazioni sindacali e su iniziativa di una amministrazione laburista. Si tratta quindi di una storia lunga che nel tempo si è consolidata e arricchita grazie al contributo di numerose altre istituzioni nate in tutto il mondo. Si possono citare a questo proposito associazioni e centri di ricerca come l’ICDE (International Council for Open and Distance Education), EDEN (European Distance Education Network), EADTU (European Association of Distance Teaching Universities) o istituzioni educative pubbliche come per esempio, per restare in Europa, il francese CNED (Centre National de l’Einsegnement à Distance), la spagnola UNED (Universidad Nacional de Educación a Distancia) o la tedesca FernUniversität, istituzioni che erogano corsi a distanza per milioni di studenti sparsi nel mondo. Le cito non per amore di enumerazione ma perché sapere che esistono e documentarsi sulla loro esperienza può essere utile per comprendere meglio un fenomeno di cui oggi si parla mettendone in evidenza quasi esclusivamente l’aspetto strumentale. In realtà il filo rosso che percorre questa storia, che unisce queste istituzioni e caratterizza le loro esperienze non è quello tecnologico bensì quello sociale e educativo:, consentire a tutti un accesso all’istruzione.
Chi oggi afferma che la didattica a distanza è inadeguata perché le piattaforme sono private e con intento speculativo non conosce questa storia e quella dell’open education; ma anche chi sostiene la sua inadeguatezza perché non consente di valorizzare la sfera affettiva della relazione tra docenti e studenti (emozioni, sentimenti ecc.) ignora che la ricerca condotta in questi ultimi tre decenni nel campo della DE si è occupata prevalentemente proprio dei processi comunicativi che si attivano all’interno degli ambienti di apprendimento a distanza e che i grandi progressi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, soprattutto quelle di rete, sono stati utilizzati per fornire una risposta adeguata alla necessità di potenziare al massimo la qualità di tali processi e per spostare progressivamente l’attenzione dai processi di insegnamento a quelli di apprendimento; in molti casi ottenendo anche notevoli successi. Basta dare uno sguardo alla letteratura scientifica prodotta nell’ultimo mezzo secolo per rendersi conto della qualità pedagogica dei contributi e delle ricadute che questi hanno avuto sulla progettazione e sulla realizzazione di molti corsi a distanza, soprattutto a livello di istruzione superiore e di educazione degli adulti.
Didattica a distanza oltre l’emergenza
Se per didattica a distanza oggi intendiamo un modo di usare la rete per assegnare e correggere i compiti a casa e non, come dovremmo, quel corpo di teorie, di metodi e di esperienze che va sotto il nome di distance education (DE), allora il rischio che si produca un notevole abbassamento della qualità pedagogica della proposta formativa è molto alto. Tuttavia è bene non dimenticare che stiamo parlando di una situazione di emergenza e che le pratiche didattiche che stiamo osservando sono la primissima risposta trovata dagli insegnanti per fronteggiare la situazione drammatica determinata dall’epidemia COVID 19. Del resto, a quanto mi risulta, non sono state date alternative. Se inoltre consideriamo l’inadeguatezza della preparazione di molti docenti, non solo rispetto all’uso didattico delle tecnologie ma anche riguardo all’approccio pedagogico-didattico sviluppato in questi anni sia all’interno della DE che nel più vasto mondo dell’educazione digitale (da S. Papert in poi), allora possiamo affermare senza incertezze che ciò che si è realizzato in queste ultime settimane rappresenta un vero e proprio miracolo, che si deve in gran parte all’impegno dei tanti docenti che non si sono arresi.
Chiarito questo è assolutamente necessario andare oltre l’emergenza e pensare a come usare l’esperienza di questa crisi come opportunità per innovare la didattica. Alcuni hanno detto «niente sarà più come prima» ne sono convinto anch’io. Più le crisi sono profonde e più sono foriere di innovazioni perché costringono a un confronto stringente con la realtà, un confronto in cui vengono mobilitate al massimo livello tutte le energie affettive e cognitive, in cui la disponibilità a sperimentare è spinta da una motivazione fortissima.
Didattica in presenza e didattica a distanza: una falsa contrapposizione
Come è noto quando le sperimentazioni producono risultati positivi non si torna più indietro. Sono certo che l’uso della didattica a distanza e le diverse soluzioni digitali, pur tra enormi difficoltà, sedimenteranno molti risultati positivi che rimarranno a disposizione di molti insegnanti e soprattutto di molti studenti già immersi nel mondo digitale, anche quando questa emergenza sarà finita e si tornerà tutti in aula. La vera sfida, niente affatto scontata, sarà trasformare i molti in tutti.
La questione che si pone oggi, e che a maggior ragione si porrà domani, non è scegliere tra didattica a distanza e didattica in presenza: nessuna persona sana di mente può sostenerlo. L’esperienza ha dimostrato che c’è una buona didattica a distanza e una pessima didattica a distanza e che lo stesso vale per la didattica in presenza. Quindi non esiste un’alternativa secca tra presenza e distanza, tranne nei casi di forza maggiore. Negli ultimi dieci anni, tanto per fare un esempio, nelle università italiane si è diffuso il modello blended, cioè un uso integrato e flessibile di didattica in presenza e didattica a distanza. La questione che si pone, e che la crisi ha già posto, è invece quella di innovare le forme della didattica, a prescindere dalla falsa contrapposizione presenza/distanza. È vero, l’innovazione didattica è un processo più o meno dinamico che da sempre accompagna la storia dell’educazione. Tuttavia la novità, oggi, sta nel fatto che la scuola e l’università sono state bruscamente “buttate in acqua” dal COVID 19 e che in molti casi, bene o male, esse hanno imparato a nuotare e sono rimaste a galla.
Ora, per restare alla metafora natatoria, è necessario imparare a nuotare bene, non limitarsi a restare a galla. Detto fuor di metafora è necessario sviluppare e diffondere una didattica di qualità, utilizzando tutte le opportunità offerte dalle tecnologie e, se necessario, imparando dalle ricerche e dalle esperienze maturate nel campo della distance education. Un campo in cui si è dimostrato che a volte le tecnologie, se utilizzate in modo pedagogicamente intelligente, possono consentire di fare cose che in condizioni normali la sola didattica in presenza non permette di fare, per limitarsi a un solo esempio, si pensi alla possibilità di condividere e costruire in modo cooperativo risorse conoscitive all’interno di comunità anche molto estese di studenti.
La qualità della didattica (quella pedagogicamente intelligente) dipende soprattutto da due fattori: a) la progettazione (la qualità ha infatti bisogno di essere progettata) e b) la formazione dei docenti, iniziale e in servizio. A questo proposito occorre avere il coraggio di puntare in alto, mettendo mano a un piano straordinario, un Piano Marshall per la Scuola e l’Università, che si basi non su un approccio tradizionale (cicli di lezioni teoriche) ma che parta dalle tante esperienze realizzate durante questa emergenza per dare loro un senso, per qualificarle da un punto di vista pedagogico e didattico e per generalizzarne le buone pratiche. Naturalmente per realizzare questo piano, come è stato per il Piano Marshall, occorrono risorse straordinarie per mobilitare le quali occorrerà invertire la pluridecennale tendenza italiana a ridurre costantemente la spesa per l’istruzione. Il 25 marzo, nel suo intervento alla Camera, il Presidente del Consiglio ha affermato, tra le altre cose, che questa crisi deve spingerci a considerare come priorità nazionali la trasformazione digitale della scuola e dell’università e lo sviluppo della formazione digitale. Aspettiamo tutti fiduciosi, pronti a fare la nostra parte.
Luciano Cecconi, Docente di Pedagogia sperimentale presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Direttore del DELAC (Digital Education and Learning Analytics Center)