L’educazione in metafore (prima parte)
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Ogni liquidità, ogni alleggerimento di padronanza diretta, introdotti nel processo di apprendimento originario lo alterano inevitabilmente. Non c’è autentica comunicazione formativa che si possa fondare sulla labilità del soggetto e sul disperdersi delle sue proprietà.
Le forme, gli strumenti e i paradigmi della comunicazione formativa (e non solo), nella scuola (e non solo), possono essere descritti attraverso alcune figure metaforiche, passate anche nel linguaggio corrente. Esse segnano modalità comunicative diverse, con protagonisti e protagonismi diversi, ma rappresentano anche tappe di evoluzione storica nelle quali l’una o l’altra forma accentuano la loro pertinenza e la loro funzionalità. Il processo di formazione e i suoi esiti sono ovviamente intrinsecamente condizionati da tali forme di comunicazione, in particolare sul piano del costruirsi progressivo e del “consistere” della personalità del soggetto, della sua autonomia individuale, della sua capacità di scegliere, decidere, agire, singolarmente e collettivamente.
Nella storia dell’educazione la forma originaria della comunicazione è organica al rapporto uno-a-uno (maestro-discepolo) per quanto riguarda il contesto specifico di insegnamento-apprendimento. Si dilata nel rapporto uno-a-molti altrettanto essenziale nella formazione anche se non “tecnicamente” legato all’apprendimento in senso stretto: la noità, la fratria, il gruppo di pari, la cittadinanza (la città come “impresa educativa”). Nella nostra tradizione (l’Accademia, il Liceo, la Stoa) il rapporto uno-a-uno (che è tale anche se “fisicamente” vi sia un gruppo di discepoli attorno al maestro) è comunque mediato dal “discorso razionale”. Dal contenuto della comunicazione, dunque, che si offre come “oggettivo” rispetto allo stesso rapporto. Lo presuppone, ma non vi si esaurisce. Per questa via il rapporto educativo viene “oggettivato”, diviene “riproducibile”, elabora una sua “scienza” oltre che una sua “arte”. Non così in altre tradizioni culturali, nelle quali il rapporto uno-a-uno tra discepolo e maestro è intriso di “ineffabilità” e singolarità (un sapere di carattere “iniziatico”) non pienamente riproducibili: così è per il Tao, per le scuole del Talmud, per la cultura tradizionale cinese o per quella indiana. Naturalmente tale aspetto è presente in ogni interazione comunicativa; ma in tali esempi ne diviene ingrediente fondamentale, “istituente”. Si potrebbe affermare che proprio su tale differenza si sia fondata, storicamente, la capacità della cultura dell’occidente di dare vita a “sistemi” di istruzione e formazione “specializzati socialmente” nella funzione della riproduzione culturale fino a pervenire a una loro dimensione di massa che ha progressivamente investito l’universo delle nuove generazioni. Probabilmente ciò rappresenta il lascito ereditario più importante e positivo che la storia iniziata nell’Atene del V, IV secolo ha trasmesso a tutto il pianeta nei secoli successivi.
Nei sistemi di istruzione che nascono dalla nostra tradizione, il rapporto uno-a-uno, come quello uno-a-molti, della comunicazione formativa è “filtrato” dalla “organizzazione del sistema”; dove il termine “organizzazione” è da intendersi in modo molto lato. Spazi, tempi, ruoli interpretati, relazioni tra gli interpreti, strumenti della comunicazione e della “riproducibilità” del processo. Tutti meriterebbero una analisi dettagliata che qui non è possibile. Rammento solo un carattere essenziale che tutti questi elementi, nella tradizione, condividono: il carattere “dedicato” che proviene dalla stessa “funzione specializzata” (l’istruzione, la formazione) che essi, nella loro articolazione, contribuiscono a svolgere e sviluppare. Tali componenti possono avere, nelle realizzazioni concrete dei diversi modelli di formazione, carattere più o meno “formalizzato” e rigido, ma non sono mai “informali” (o “liquidi” per usare un attributo oggi abusato). Anche quando appaiano tali si tratta semmai di una “informalità virtuale” prodotta intenzionalmente e dunque “dedicata” alla funzione del sistema.
In figura riporto la mappa di un collegio dei Gesuiti dei primi decenni del ‘600.
È un buon esempio di “organizzazione dedicata e specializzata”. Il mito pedagogico della “città educante” si presenta capovolto, la scuola “simula la città” e i suoi ambienti: le aule, le corti (come agorà), i patii, il loggiato (l’insegnamento peripatetico?), il tempio, ricostruiscono, nell’ambiente “specializzato”, quelli della città. Dentro la “città-scuola” si svolgeva la vita dei discepoli tra apprendimento diretto e socialità collettiva normata da regole, cadenze temporali, attività pratiche. Dalla rilettura della “Ratio Studiorum” dei Gesuiti si ricava l’impressione che, sul fronte della didattica, tutto sia già stato detto. Si veda per esempio il ruolo “formativo” della “disputatio” che sollecitava le capacità argomentative e dialettiche degli alunni… mutatis mutandis fa sorridere l’enfasi attuale sulle “novità rivoluzionarie” interattive assicurate dai nuovi strumenti…
Quanto agli “strumenti”, il supporto al “discorso razionale” che anima storicamente la comunicazione formativa uno-a-uno era il prodotto della rivoluzione gutenberghiana: il libro. Al di là dei rapsodici richiami storici, qui mi preme però sottolineare che il contesto formativo della storia e della tradizione è caratterizzato, sia nella dimensione uno-a-uno che in quella uno-a-molti, da un gradiente gravitativo incentrato sui soggetti della comunicazione. Essi cioè “consistono” in quanto tali, come soggetti in confronto reale, fisico, con tutta la loro soggettività di sentimenti, intelligenza, memoria, cultura sulla quale esercitano “padronanza” a partire da un “possesso reale” che fa parte della loro consistenza di soggetti unici. Si pensi al ruolo che, nei processi di apprendimento tradizionali, ha avuto (ha) la memoria, come “detenzione in proprio” della conoscenza, come sua implementazione sul substrato psico fisico del soggetto. Per usare un altro linguaggio: una RAM, una ROM detenute “fisicamente” e supportate da memorie esterne (il libro) altrettanto fisicamente in dotazione personale. E ciò vale per entrambi i poli della comunicazione formativa, ciascun con il proprio campo gravitazionale, per quanto e come possa essere asimmetrica la relazione stessa uno-a-uno, nella comunicazione formativa (e guai a scordarsi quella asimmetria…).
Sono convinto che tali elementi costituiscano ingredienti insostituibili del processo di formazione lungo il suo itinerario e sviluppo che accompagna il soggetto dall’io infinitamente desiderante al noi della città. Insostituibili nel processo di “accumulazione originaria” capace di costruire le condizioni dello sviluppo autonomo e della espansione indipendente del soggetto; capace su tale base di “costruire” il soggetto: uomini e donne liberi ed eguali capaci di scegliere, decidere, deliberare, agire, a partire da quel patrimonio in propria padronanza e possesso e detenuto in quanto soggetti-persona.
Credo che ogni “liquidità”, ogni alleggerimento di padronanza diretta, introdotti in tale processo originario lo alterino inevitabilmente esattamente come, sul piano propriamente psicanalitico, opera in modo isomorfo effetti distorcenti “l’evaporazione” del padre come presidio della Legge e del Desiderio. (Si veda Recalcati e prima di lui Lacan). Non c’è autentica comunicazione formativa che si possa fondare sulla “labilità” del soggetto e sul “disperdersi” delle sue “proprietà”.
Non mi nascondo che tali riflessioni appaiono contraddittorie, o comunque “altre” rispetto a tante suggestioni che provengono dal mondo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dai loro strumenti: numerosissimi e interessanti i contributi in tale direzione che sono ospitati da Education 2.0. E mi incuriosisce e interroga per esempio la passione per Facebook testimoniata da molti colleghi docenti.
(continua)
Franco De Anna