Volevo essere una farfalla, come l’anoressia mi ha insegnato a vivere
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“Imparare a vivere significa accettare l’attesa, la sospensione, l’incertezza. Integrare lentamente l’idea che, nonostante tutto, il vuoto che ci portiamo dentro non potrà mai essere del tutto colmato”. Maurizio Tiriticco ha letto “Volevo essere una farfalla, come l’anoressia mi ha insegnato a vivere” di Michela Marzano (Mondadori, Milano 2011). La recensione per Education 2.0.
Di ritorno da Milano, passo alla stazione da Feltrinelli e, invece di curiosare tra la saggistica psicopedagogica, sociale, politica, vado alla sezione narrativa e novità e mi colpiscono questo titolo, “Volevo essere una farfalla”, e l’autrice, Michela Marzano, una filosofa ex normalista, docente a Paris Descartes, autrice di saggi di filosofia, morale, sociopolitica, quindi non una scrittrice a tutto tondo.
E sono stato premiato! Tre ore di viaggio, tre ore di lettura intensa, appassionante, interessata e veloce, più di 200 pagine! Era tempo – non lo ricordo veramente – che non leggevo un romanzo con tanto interesse! Ma il libro che ho acquistato, più per impulso che per scelta ragionata, in effetti non è un romanzo! Non è un’autobiografia, non sono memorie, non è una ricerca sociologica, non è un saggio, non è uno scritto di autoanalisi… eppure è tutte queste cose insieme, una chiave narrativa assolutamente originale e nel contempo assolutamente avvincente! Sono tessere di un mosaico, ricordi, presenze, amori, fallimenti, tentativo di suicidio, anoressia!
Però. il “come l’anoressia mi ha insegnato a vivere”, che compare in copertina, non giustifica affatto il libro né ne costituisce l’hard core! Non è un libro sull’anoressia, questa è solo l’aspetto esteriore di un male profondo che è di una bambina, di una ragazza, che vuole solo vivere, comprendere, gioire e crescere in una situazione in cui un padre, severo docente universitario, e una madre amorevole non sono affatto la ragione scatenante di ciò che la affligge. È la fatica di vivere, o meglio la fatica di voler capire tutto, afferrare tutto – cosa impossibile – che aggredisce e attanaglia la piccola Michela, il conflitto tra un dover essere atteso e perseguito con ostinazione – e non tanto per volere del padre – e un essere fragile, indifeso, forse insufficientemente protetto da un calore famigliare, che in effetti non le manca.
Di qui si snoda tutta la sua vita che non è un racconto lineare e puntuale, cronologicamente condotto: si tratta di una serie di flash – ed è per questo che il libro va letto tutto d’un fiato – come “confessioni” rese sul lettino dell’analista, che si susseguono come in una serie di foto e di videoclip, sostenute e “commentate” da spunti di analisi sempre puntuali e sottili. Quando sei sul lettino dell’analista, non parli per lui, che ti è alle spalle, parli per te, come “ti viene in mente”, fai e disfai, al di là delle coordinate spaziotemporali che scandiscono, invece, la cosiddetta vita normale di ogni giorno. Spaziare su quarant’anni di vita – tanti ne ha l’autrice – ma non in sequenza, non è facile, può confondere il lettore, eppure non è così! Michela costruisce la sua storia con criteri atemporali – si può dire così – perché non è lo scorrere del tempo che caratterizza il suo crescere e maturarsi! È come se la variabile essere, il dipanarsi dell’essere, ammortizzasse la variabile tempo: è l’inquietudine costante e insoddisfatta di Michela bambina, giovinetta, adulta, studentessa, professore, filosofo, che tesse il filo della narrazione, una sorta di diario che, però, non afferisce al susseguirsi dei giorni, ma è scandito per dolori e gioie, pensieri di morte e inni alla vita. Uno strano lust zu fabulieren: insomma, più che un piacere di narrare, una necessità di narrare!
Si tratta di 62 capitoletti, di 3 o 4 pagine ciascuno… e ciascuno ha la sua autonomia. Piccoli medaglioni, direi! E allora sono divagazioni? No! Ricordi? No! Commenti? No! Eppure sono tutte queste cose insieme… la sua vita, le sue gioie, i suoi dolori, i suoi studi, i suoi amori, i suoi interessi, la sua caparbietà nel conoscere e amare ogni cosa che fa con un’onestà profonda, sostenuta da curiosità, voglia di capire, di mettere ordine, di scazzi furenti a volte, e di grandi empiti di felicità: l’euforia e la depressione, la tipica polarità delle persone “interessanti”, gioiose tanto, ma anche tanto sofferenti!
Ma è la sua vita stessa che è un insieme di cammei, non c’è un inizio, non c’è una fine, soprattutto non c’è un fine… Ciò che conta e vive da bambina ha la stessa forza di ciò che sente da studentessa, da normalista, da docente universitaria, da ricercatrice, da filosofa…
Non è un romanzo perché non c’è una storia, un inizio, una fine, un fine, non c’è neanche una narrazione distesa, ma una serie infinita di eventi e di riflessioni: una sorta di Ulisse/Bloom, ma non degli anni Venti, bensì dell’età contemporanea, riscritto e riscoperto con la sola differenza che si tratta di un Ulisse donna, con il suo mondo interiore e i suoi travagli che non so quanto un Joyce sarebbe oggi capace di capire e di descrivere. Il richiamo che Michela fa a Nelly Arcan, la… putain suicida a soli 34 anni, dà il senso di questa riscrittura: il campione di Joyce non si suicida, il suo travaglio è tutto intellettuale, altra cosa rispetto a quello lancinante di una donna, di un mondo al femminile di oggi, tuttora alla ricerca di un posto in una società forse ancora immatura per capirla e accoglierla. Michela ci ricorda che dopo “Putain” Nelly aveva scritto “Folle”, pazza: la paura di una donna – ma femmina o maschio è indifferente – non tanto di essere abbandonata, quanto di non essere, forse perché si è, se si è in due! E la disperazione assoluta ricordata in quarta di copertina dall’editore francese divenne una buona ricetta per vendere! E Michela sottolinea il cinismo di una società che strumentalizza tutto, anche la disperazione e la morte!
“Imparare a vivere significa accettare l’attesa, la sospensione, l’incertezza. Integrare lentamente l’idea che, nonostante tutto, il vuoto che ci portiamo dentro non potrà mai essere del tutto colmato. Che ci sarà sempre qualcosa che ci manca. E che è proprio questa assenza che caratterizza il nostro rapporto con il tempo, con lo spazio, con l’amore… E che gli altri non sono ‘cattivi’ se non sono sempre lì, pronti a intervenire, pronti a fare qualcosa perché il vuoto faccia meno male” (p. 104): una delle tante perle di saggezza con cui Michela ama chiosare le pagine del suo libro! Da non perdere!
Maurizio Tiriticco