Il valzer delle “aule”
L’anno successivo ci fu il walzer delle “aule” e per far largo ai nuovi studenti passammo dalla cucina alla camera da letto. Due balconi invece che quattro. Due file di banchi doppi divisi da uno spazio stretto. Stipati, in più di venti.
Quattro piani, otto balconi, un vecchio portoncino di legno. Per entrare con gli zaini carichi di libri, almeno uno diverso per ogni ora di lezione, bisognava aprire entrambe le ante. Operazione di cui si faceva carico ogni mattina uno dei bidelli, quasi un cerimoniale. Con calma, la sigaretta in bocca e una manualità distratta ed automatica, apriva la serratura arrugginita, che fili, spaghi e cornicine varie aiutavano a chiudersi. Quella porta che si apriva voltava una pagina della mia vita: era il mio primo giorno al liceo classico. Ansie, paure, emozioni. Immaginavo una scuola rigida, dove per conquistare i voti delle medie avrei dovuto lavorare il triplo. Immaginavo una sfilata di professori tutti da studiare e di compagni nuovi da scoprire. Immaginavo un’aula fatta da quattro pareti, una quantità imprecisata di banchi, una lavagna, una cattedra. Immaginavo una palestra e di informatica. Immaginavo male. Entrai. Una scala condominiale, stretta. Impossibile salirla in due, con gli zaini. Gradini vecchi e corrimano dondolante.
Prima rampa. Alla sinistra e alla destra del pianerottolo due porte di appartamenti (divelte per facilitare il passaggio). Indicazione IA, a destra. Corridoio, stretto e buio. Prima porta: la mia aula. In fondo a sinistra, una striscia di piastrelle con tanto di rubinetti: ex cucina. I banchi occupavano si e no metà di quello spazio immenso perché era stato abbattuto il muro della sala da pranzo. Senza riscaldamenti, con quattro porte balconi dalla chiusura discutibile. Due mesi dopo: tutti seduti con il cappotto addosso e i guanti tagliati per scrivere. Il pezzo forte era la palestra: un garage progettato per due auto, con tanto di saracinesca, cemento e vetri. La professoressa fece qualche tentativo ma noi eravamo troppi: un gruppo correva, l’altro guardava. L’educazione fisica divenne sempre più un optional e finimmo col passeggiare sul lungomare. Certo, qualcuno scappava anche sulla spiaggia. Ma era l’unica cosa vera che avevamo.
L’anno successivo ci fu il walzer delle “aule” e, per far largo ai nuovi studenti, passammo dalla cucina alla camera da letto. Due balconi invece che quattro. Due file di banchi doppi divisi da uno spazio stretto. Stipati, in più di venti. Per imparare a prendere le misure dei miei movimenti impiegai qualche tempo: lo schienale della sedia contro il banco della fila posteriore si traduceva in rigacce sui compiti, a domino. Altri movimenti erano invece destinati a rimanere momenti di equilibrismi e di vendette giocose. Arrivare alla cattedra senza far cadere astucci e libri, per esempio. O scrivere alla lavagna senza gessi. L’impresa più ardua era aprire i due balconi per far circolare aria in inverno. Nei mesi più caldi studiammo una strategia: un banco tra le ante aperte, un altro davanti al vetro, un terzo dietro. La porta, naturalmente, si trovava esattamente di fronte per far volare meglio fogli e raffreddori. La ricreazione si faceva su un terrazzino stretto e lungo quanto tutta l’aula. Da lì controllavamo i motorini parcheggiati sotto. Ogni tanto li ritrovavamo bianchi perché cadevano calcinacci dei cornicioni. Una volta cadde un pezzo di muratura del balcone. Rispondemmo con una manifestazione uguale a quelle dei nostri nonni, ex alunni, e di mio fratello, dieci anni dopo di me. Chiedevamo sicurezza e non una vecchia casa privata profumatamente pagata con soldi pubblici. Ci facevano eco opportunismi politici.
La scuola nuova è arrivata solo due anni fa, dopo mezzo secolo di disagi e comizi preelettorali. Con un piccolo particolare: hanno dimenticato di fare la palestra.
Anna Maria De Luca