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“Le lunghe notti di Anna Alrutz” e le sfumature umane di una voce femminile

Pubblicato il: 19/06/2014 11:59:19 -


La recensione al libro di Ilva Fabiani, “Le lunghe notti di Anna Alrutz”, mette n luce la forza della narrazione femminile di fronte a un dramma conosciuto ma fatto di tante sfumature umane che le donne sanno percepire.
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Non saprei dire se il libro di Ilva (Ilva Fabiani, “Le lunghe notti di Anna Alrutz”, Feltrinelli, Milano, maggio 2014) è un romanzo, un lungo racconto, o un diario. Certamente è tutte queste tre cose: e nasce da quel “piacere di narrare”, quel “lust zu fabulieren”, come necessità di dire, di raccontare, di rendere testimonianza di una vicenda che non può non essere detta e rappresentata in tutti i suoi drammatici risvolti. Una storia che nasce da una fiducia immensa nella vita, nella professione, nel contesto in cui si sviluppa: “Hitler dava fiducia alle donne, un suo governo non avrebbe mai ostacolato la nostra carriera, anzi l’avrebbe incoraggiata con riforme e incentivi. Nuove scuole, nuovi indirizzi, borse di studio: le dottoresse tedesche sarebbero diventate l’orgoglio della nazione! E io, che non ero sposata e che con tutta probabilità non avrei mai avuto bambini in vita mia, ecco, io potevo almeno farli nascere, potevo se non donarla, la nuova vita, almeno accompagnarla, assisterla, curarla. Quel pomeriggio, davanti alle crêpe di Pierre all’improvviso tutto si chiarì: sarei diventata ginecologa” (p. 144).

Si tratta della vocazione di una ragazza della buona borghesia tedesca, figlia di un medico, educata ai “sani principi” – come si suol dire – che nella sua adolescenza – è nata nel 1907 – vive tutto il dramma di una Germania che ha perso la guerra e che è determinata a ricostruire la sua dignità di nazione e di popolo agli occhi del mondo. Se i trattati di pace la umiliano, la nuova Germania intende riscattarsi e mostrare quanto la sua “kultur”, la sua civiltà, la sua storia, possano contare per un’umanità futura senza più guerre. Per tutto il lungo periodo della Repubblica di Weimar, dai trattati di pace all’avvento del nazismo, dal ’19 al ’33, Anna ha modo di crescere, di studiare, di credere come e quanto un cittadino, una donna, possa dare a una nazione e a un popolo alla ricerca del suo riscatto civile e morale. Le vicende sono note: i partiti politici, le idee, le discussioni e… le risse sono tante! E il nazionalsocialismo s’inserisce in questa vicenda come il più convinto sostenitore della rinascita di un Paese che non intende essere umiliato. E non era neanche difficile in quegli anni, anche per una certa borghesia benpensante, simpatizzare con le idee di un movimento decisamente patriottico e nazionalista.

Sono gli anni di una Germania difficile alla ricerca di una nuova identità, visti e sofferti da una ragazza che è alla ricerca anche del riscatto femminile. “Nelle scuole femminili il latino non era previsto. Che cosa c’era di tanto pericoloso nel latino per vietarlo alle ragazze?” (p. 129). È ovvio che in una società ancora per molti versi chiusa all’emancipazione della donna, le sirene del nascente nazionalsocialismo potevano far breccia. Il riscatto di un popolo non prevedeva differenze di genere; tanto meno quando dal giusto riscatto si passò in pochi anni alla pretesa supremazia di un Popolo e di una Razza con tanto di maiuscole. E la Donna in quanto Madre e garanzia prima dello sviluppo di una Nazione costituiva – o sembrava costituire – il clou di una diversa e nuova ideologia.

Per tutti gli anni Venti in Germania il nuovo nazionalsocialismo – nazione e stato sociale – andava maturando le sue idee (il “Mein Kamps” è pubblicato nel 1925) e buona parte della piccola e media borghesia vedeva anche con simpatia lo sviluppo del nuovo movimento. La presa sui giovani era forte, anche sulla nostra Anna, poco più che adolescente e impegnata più allo studio e al lavoro – come momenti di riscatto di genere – che al matrimonio.

Tutta la prima parte del libro semplicemente avvince: le piccole/grandi vicende famigliari, i litigi con il fratello minore, i piccoli riti delle colazioni mattutine, le “visite” pomeridiane, la frequentazione del pastore protestante, le villeggiature a Bad Salzgitter, sono tutte narrate con semplicità, partecipazione, entusiasmo. Ilva, l’autrice, “incontra” Anna, la protagonista, e insieme sembrano costituire un’endiadi. E poi vengono gli studi superiori, la medicina, affrontata come passione personale, ma anche e soprattutto come servizio sociale. Gli insegnamenti famigliari hanno fatto centro: Anna vuole crescere, apprendere per poi “servire”: gli altri, anzi, soprattutto le altre, come donna e come cittadina di una nuova Germania. È la Germania alla ricerca della rinascita e del riconoscimento da parte dei vincitori: l’orgoglio di un popolo, di un cittadino, di una donna. E tutta la propaganda nazionalsocialista del decennio degli anni Venti fece breccia in molta parte del popolo tedesco e della buona borghesia.

L’impegno cha Anna assume verso se stessa e verso il sociale è alto. Studia medicina, e non senza difficoltà: i medici e i professori maschi non mostrano alcuna fiducia verso le donne, perché ritengono che certe professioni siano tipicamente maschili. Ma Anna non si arrende: la sua volontà è ferma e non recede. Procede per la sua strada e diventerà una “Braune Schwester”, un’infermiera particolare e specializzata che vuole dedicarsi soprattutto all’assistenza alle donne. Giungiamo al 1933. Hitler prende il potere e il suo progetto di difesa del popolo tedesco, della sua identità e della sua salute entusiasma Anna e tanti tedeschi in verità. La ricerca scientifica ha fatto passi da gigante e i modi per difendere e migliorare la salute di un popolo e dei singoli cittadini, anche per un’insorgente stabilità statuale ed economica, sono molteplici.

Ma, a poco a poco, la difesa della salute di un popolo diventa qualcosa di terribile. Anno dopo anno la legislazione contro i “diversamente abili” – diremmo noi – e poi contro i diversi, contro etnie semplicemente “altre”, non considerate “pure” sotto il profilo razziale – il concetto di etnia è recente e ovviamente non funzionale ai progetti di Hitler – si fa più determinata e più feroce. Così gli ospedali che dovrebbero assistere le donne in difficoltà si trasformano, invece, in luoghi di tortura. La “nuova” Germania non può tollerare che “Lebenunwertes Leben”, vite di nessun valore, infettino e intralcino lo sviluppo di un popolo che si considera puro e destinato a governare il mondo.

La penna dell’autrice è rigorosa e, all’inizio delle terribili operazioni, rispecchia gli atteggiamenti “professionali” della protagonista. Sono operazioni dolorose quelle esercitate sulle donne ma necessarie: la stessa Anna si sarebbe sottoposta alla sterilizzazione, se la sua personale condizione l’avesse richiesto! E le urla disperate delle donne sottoposte a quel martirio non sembrano preoccuparla più di tanto: il bene della collettività va oltre quello del singolo! Ma poi accade qualcosa: l’incontro con Thierry, studente francese, stagista presso l’ospedale e… ebreo! “Quel bacio mi risvegliò. Il suo calore risvegliò il mio, la sua bocca morse la mia. Le sue mani scivolarono sulla mia pelle sudata, cercando i bottoni del vestito, il seno sotto la veste e le natiche pressate sulla porta. Il mio corpo si lasciò andare. Mi sciolsi in un mare caldo di effluvi, di odori antichi. Mi lasciai guardare e guardai anch’io la nudità dell’uomo che desideravo, il suo respiro rovente nell’incavo del mio collo”.

Ricordiamolo! Nel 1935 con le leggi di Norimberga avrebbe avuto l’inizio della fine di tutti gli ebrei. Giorno dopo giorno nell’ospedale femminile alle orecchie di Anna le urla non sono più quelle di cittadine irresponsabili, ma di donne private a forza della loro femminilità. Le sofferenze delle donne diventano il dolore di Anna. E allora s’inventano tutti i sotterfugi per dar loro aiuto e farle fuggire da quell’ospedale in cui si uccide invece di dar vita.

Il crescendo narrativo è tremendo, ma mai l’autrice esce fuori dalle righe. Situazioni di questo genere, oggettivamente drammatiche, offrono sempre occasione per approfondimenti scabrosi. Ma Ilva e Anna non vanno oltre il rigore della rappresentazione: le emozioni forti sono lasciate al lettore! Il rispetto che si deve ai più deboli e indifesi è totale. La dignità del raccontare non cede mai all’effetto che può suscitare il raccapriccio.

Il dolore di Anna è tremendo. È diventata “Braune Schhwester” per dare la vita, non per toglierla. Non è la professione per cui ha dato la sua giovinezza e la sua vita professionale. Così Anna a poco a poco comincia a spegnersi, seguita da Ilva sempre con la sua penna attenta, prudente, rispettosa. E Nikolaus il 6 dicembre del 1935 muore. “Non avevo neanche trent’anni. Pioveva nevischio e fango e il freddo ti entrava nelle ossa” (p. 11). Comunque, le sono stati risparmiati i massacri di milioni d’innocenti in una delle più spaventose guerre che l’Umanità abbia conosciuto.

Anna non c’è più, ma, con le sue ambizioni giovanili, le sue sofferenze di rigorosa professionista, ha avuto la fortuna d’imbattersi con una scrittrice di grande valore e che dimostra una piena maturità narrativa, anche se – come penso – è alla sua opera prima.

Maurizio Tiriticco

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