La scuola di 150 anni fa
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Nel 1865 viene pubblicata la Relazione Matteucci “Sulle condizioni della pubblica istruzione nel regno d’Italia”, uno straordinario documento per capire chi eravamo e quale ruolo fondamentale ha giocato la scuola nella costruzione della nostra patria. Alcuni passaggi dal testo originale.
Nel 1860 l’Italia registrava una percentuale di analfabeti pari al 78% (con punte del 90% nel Meridione). La questione fu immediatamente affrontata con la legge Casati (RD 13 novembre 1859, n. 3725) che affermava la necessità sociale della scuola sulla base di due principi fondamentali: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione pubblica. Un primo bilancio dei risultati della Casati è la relazione del Consiglio Superiore “Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia” (1865) – redatta sulla base di quesiti posti agli ispettori locali – di cui pubblichiamo alcuni stralci.
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«Quesito: Nelle scuole si usa il dialetto o la lingua italiana, e questa si a parla senza gravi scorrezioni?
Torino – Nelle scuole elementari dei capoluoghi si usa la lingua italiana, e si parla con mediocre correttezza. È naturale che i fanciulli settenni i quali hanno sempre parlato il linguaggio della mamma e dei babbo, debbano trovarsi in imbarazzo nel dover esprimere i proprj pensieri in italiano; ma a poco a poco si avvezzano, e pagando il tributo di molti errori, giungono più tardi a maneggiare la lingua con discreta facilità.
Nelle scuole dei piccoli comuni, e delle borgate, l’uso dei dialetto è ancora un po’ comune: col pretesto che i fanciulli non intendono l’italiano, i maestri parlano sempre il piemontese, e non si avvedono che continuando così non avverrà mai, che altri si avvezzi a comprendere se non a parlare la lingua nazionale[…].
V’hanno poi le scuole delle valli di Aosta, di Cesana, di Oulx e di Fenestrelle, dove invece del dialetto di Piemonte si parla la lingua francese; l’italiano vi si insegna pure, ma l’uso non è ancora universale.
Milano – Sgraziatamente nelle scuole, intendo sempre le rurali, si usa il dialetto. La lingua italiana i maestri non la conoscono e non vogliono adoperarla, difendendosi colla scusa, che i loro alunni non l’ intendono. La quale scusa, quanto sia debole, non è chi non vede. La lettura e l’uso della lingua continui, insistenti, condurranno un dì gl’Italiani a parlare una lingua sola, vero vincolo di fratellanza, vero strumento di civiltà e di forza.
Bologna – Si parla sempre la lingua italiana. Nella provincia di Bologna, affine alla Toscana, evvi molta facilità a rendersela famigliare, perchè il dialetto è un impasto di parole storpiate bensì, ma di buona lingua; nella bocca de’ fanciulli però non va esente da idiotismi e da scorrezioni, impossibili a togliersi nel breve tempo che s’impiega nelle scuole elementari.
Lucca – Nella Provincia di Lucca si parla in generale il puro italiano, e così necessariamente nelle Scuole tanto delle città come delle campagne […].
Arezzo – Qui si usa la lingua italiana nelle scuole e non il dialetto, e la lingua si parla dagli insegnanti con pochissime scorrezioni, giacchè tutti i maestri di questa provincia son Toscani.
Napoli – Gl’insegnanti vecchi usano il dialetto; e alcuni che parlano in iscuola in italiano, parlano assai scorretto.
Palermo – Nelle Scuole urbane si usa la lingua italiana: ma in gran parte delle Scuole rurali non si è ancora potuta smettere l’usanza del dialetto. La lingua generalmente si parla con le scorrezioni adottate e consacrate nel dialetto.
Cagliari – Nelle scuole usasi in generale la lingua italiana, e questa parlasi con abituali scorrezioni che originano dal dialetto.
[…]»
TRE ITALIE
«La statistica dell’istruzione in Italia ci mostra ora all’evidenza come sia vero ne’ minuti ragguagli ciò che già si credeva in generale e per mezzo di lavori di privati cittadini già era stato dimostrato, che cioè considerando teoreticamente l’Italia come divisa nelle tre grandi parti, Settentrionale, Media, e Meridionale, sgraziatamente si possa dire che la luce della civiltà decresce da settentrione a mezzodì pressoché proporzionalmente […].
Studiati questi quadri statistici così ricomposti, si ha per l’alta Italia il numero di 46,570 scuole primarie, con 573,474 fanciulli e fanciulle che le frequentano. Per l’Italia centrale si hanno 6907 scuole primarie con 480,052 fanciulli e fanciulle. Per l’Italia meridionale si hanno 6844 scuole primarie con 184,821 alunni dell’uno e dell’altro sesso. Se poi si contrappongono le cifre degli scolari col numero dei fanciulli atti all’istruzione, si contano ancora nell’alta Italia 486,728 analfabeti; nell’Italia centrale gli analfabeti sono 594,347; e nell’Italia meridionale ascendono alla cifra abbastanza vistosa di 4,150,119 analfabeti. Dalle quali cifre emerge che nell’alta Italia, ove pur tanto si è operato per diffondere l’istruzione primaria, vi ha ancora una metà in circa di fanciulli senza istruzione; nell’Italia centrale si contano tre quarti dei fanciulli senza coltura veruna; e nell’Italia meridionale per oltre sei settimi dei fanciulli rimangono ancora in uno stato di primitiva selvatichezza […]».
LA CONDIZIONE DEI MAESTRI.
«Il poco prospero andamento di molte scuole rurali è in gran parte dovuto alla difficoltà di aver buoni maestri, e ciò in causa dell’infelice condizione in cui tuttora si trova il ceto dei pubblici e privati educatori.
La legge non volle considerare i maestri che quali prestatori d’opera. Quindi lasciò libera facoltà ai Comuni di assumerli a tempo determinato, e quando non fosse convenuto alcun tempo prefisso, si ritenne limitato il loro servizio ad un triennio. Questo stato di continua precarietà rende la condizione dei povero maestro e quella della maestra, siffattamente instabile da togliere loro ogni alacrità al ben fare, non essendo mai certi della vita dell’ indomani[…].
Questo stato di cose non può più comportarsi senza pubblica vergogna. È ormai tempo che abbia la condizione legale dei maestri a ritenersi eguale a quella degl’ impiegati dello Stato; e quando non abbiano demeriti, dovrebbero essere conservati nel loro ufficio sino a che sono in grado di compierlo lodevolmente[…].
I programmi dei corsi magistrali devono innanzi tutto essere non solo semplificati, ma di bel nuovo rifatti. […] È quindi necessario che i corsi magistrali siano prolungati, ed il loro programma deve dividersi in due parti; in una parte preparatoria di carattere didattico, e nella parte rigorosamente metodica. Questo corso preparatorio deve essere così ordinato e disposto che rechi in germe lo sviluppo delle future dottrine di metodo. E le materie stesse d’insegnamento devono di tal guisa impartirsi, da porgere al magistero le attitudini pratiche pel progressivo svolgimento delle facoltà intellettive e morali della gioventù da educarsi al vero ed al bene. Le dottrine pedagogiche pur dovrebbero essere con ispecial cura insegnate ed applicate.
[…]»
DISCIPLINE SCOLASTICHE
«I buoni pedagogici hanno dovuto notare che pel desiderio del meglio, non sempre amico del bene possibile, venne da chi regge la pubblica istruzione emanata una soverchia congerie di Regolamenti disciplinari, di prescrizioni minute, e di programmi scolastici. Si scambiò l’esercito scolastico che insegna, nell’esercito militante che manovra e che combatte. Si prescrissero ad una ad una le evoluzioni del pensiero che insegna; si notarono col calendario alla mano, e quasi persino coll’orologio le dosi della dottrina da impartirsi agli apprendenti; si imposero metodi per sè buoni, ma pur suscettivi di più libero svolgimento e di progresso; si raccomandarono libri che la sperienza pedagogica e didattica giudicò per lo meno imperfetti ; si tramutò l’insegnamento che vive delle più elette inspirazioni dell’umano pensiero, in una macchina ad ordigni complicatissimi, che deve porgere una dottrina sempre circoscritta ed uniforme.
A questa monotonia di discipline scolastiche e di metodi, ha dovuto per necessità ribellarsi la forza istintiva e costruente del pensiero italiano, e molte magistrature scolastiche, con una assennatezza che pur le onora, dovettero lasciar libero l’adito a fare a chi sapeva far meglio delle ordinanze ufficiali.
Sotto questo rapporto non può la Società Pedagogica che emettere un unico voto, ed è quello, che abbia il Ministero a limitarsi ad esporre i massimi limiti a cui deve giungere l’istruzione primaria nei progressivi suoi gradi; a far noti i migliori metodi sperimentali senza imporli siccome una legge imprescrittibile; ad incoraggiare con premj, siccome ha con ottimo intendimento ora fatto lo stesso Ministro, gli autori dei migliori libri scolastici, lasciando agli insegnanti la libera facoltà di usarli sotto la loro personale responsabilità; ed a promuovere ogni anno, siccome già si pratica nel Belgio, pubbliche conferenze pedagogiche presiedute dal Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per discutere tutto ciò che può meglio giovare al progresso de’ buoni studj.
Con questo libero modo di operare può essere certo il Ministero che la famiglia degli insegnanti in Italia, saprà più efficacemente corrispondere al suo magnanimo, eppur arduo mandato, di educare la nazione a que’ sommi veri che soli racchiudono i sommi beni d’ogni popolo incivilito».
È possibile consultare il testo integrale della Relazione “Matteucci” su Google libri
Redazione