Recensione di “Storia di un corpo” di Daniel Pennac
Non è un romanzo né un diario. Piuttosto, il “verbale romanzesco” di una vita attraverso il corpo del protagonista.
– Recensione di Daniel Pennac, “Storia di un corpo”, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 350
In quarta di copertina si legge: “un romanzo fortemente raccomandato a tutti quelli che hanno un corpo”. Non so, ma, a mio avviso, chi pensa di accedere a un romanzo, sappia che si troverà dinanzi a un’altra cosa! Un romanzo ha una sua struttura, una sua dinamica, un inizio e una fine, una storia, una tesi, uno o più personaggi… dico cose ovvie anche perché il romanzo ha origini antiche e chi legge sa di trovarsi sempre di fronte ad un “unicum”. Mi spiego meglio: in una storia raccontata – comunque, lungi da me il tirare in campo i generi di scrittura – ogni vicenda ha una sua collocazione, un suo legame con altre, un suo fine: fabula e intreccio non prevedono cadute di stile! In un film, in cui i familiari del rapito attendono che i rapitori si facciano vivi, quando squilla il telefono, è sempre la voce chioccia del rapitore che chiede il prezzo del riscatto. Ma nella vita reale non è così! Può essere la suocera che vuole dettare la ricetta alla nuora, o l’amica che vuole chiacchierare, o il ragazzino che cerca l’innamorata! Hai voglia ad attendere che i rapitori si facciano vivi! Il fatto è che una storia inventata e raccontata ha un suo svolgimento e tutto deve esserle funzionale! Nei racconti un taxi si incrocia subito, un aereo arriva sempre puntuale e così via… a meno che… Ma ciò che è “accidentale” fa sempre parte della storia. Le “uscite laterali”, le mille casualità, sono della vita reale, non delle storie raccontate. A meno che – lo ribadisco – non si voglia sollecitare la suspense… ma questo è un altro discorso.
Ecco perché la “Storia di un corpo” non può definirsi un romanzo come siamo soliti concepirlo! Mi vengono in mente due altri scritti famosi, l’ “Ulisse” di Joyce e il “Libro dell’inquietudine” di Pessoa. Cosi forti, lo sappiamo! Solo oggi, a distanza di decenni, l’ “Ulisse” lo consideriamo un romanzo, ma, alla sua uscita, fu molto difficile capirlo e ritrovarvi le chiavi di lettura adatte. Le avventure dell’Ulisse omerico avevano tutte la loro giustificazione nel fatto che l’eroe, per tornare a casa, doveva superare una serie di prove. La “prova” è il sale della narrazione, e la chiave di lettura di migliaia di storie, e di fiabe, anche, stando al Propp: e queste hanno i loro tempi e i loro spazi, le loro interconnessioni. Ma ricercare le “prove” nelle vicende di Bloom apparve subito estremamente difficile. Spazio e tempo erano congelati nella giornata tutta interiormente vissuta e raccontata dallo stesso protagonista. Prendere o lasciare: questa è la sfida lanciata da Joyce, che solo più tardi abbiamo capito e raccolto. In effetti, un conto è il viaggio di Ulisse alle prese con vicende “esterne” che lo mettono costantemente alla prova; altro conto è il viaggio di Bloom nel mondo delle sue “interne” personali vicende. Nel primo c’è l’avventura dell’uomo che si misura con le cose altre da sé. Nel secondo c’è l’avventura dell’uomo di oggi che si misura con se stesso, con la sua inquieta vicenda interiore. Del resto, a monte di Omero c’erano gli eroi dell’età del bronzo, a monte di Joyce c’è Freud, l’inquietudine dell’uomo contemporaneo.
Il “Libro dell’inquietudine”, pensando al “romanzo” del corpo di Pennac, lo potremmo definire il “romanzo” dell’anima. L’espressione di Soares/Pessoa “cosa buttata in un angolo, cencio caduto per strada, il mio essere ignobile finge se stesso davanti alla vita” (p. 161, Feltrinelli, 1986) è esemplare: la vita è un insieme di atti e di cose che non hanno alcun senso, se non quello di ridurci a semplici osservatori di vicende di cui non abbiamo né padronanza né responsabilità. “Così porto a spasso il mio destino che avanza senza che io avanzi; e il mio tempo che procede senza che io proceda. E niente mi salva dalla monotonia, se non questi brevi commenti che tesso intorno a lei” (p. 126). Non è quella di Pessoa la storia di un’anima, come quella di Pennac non è la storia di un corpo. In ambedue i “romanzi” i protagonisti non sono né l’anima né il corpo, ma le vicende esterne a fronte delle quali anima o corpo non hanno alcun potere. Non possono raccontare di sé, come anima o corpo, ma solo delle vicende a fronte delle quali anima e corpo non hanno alcun potere se non quello di erigere disperate difese.
Per queste ragioni non possiamo parlare della storia di un corpo, ma delle vicende senza senso e senza fine a cui un corpo è esposto dalla nascita alla morte. Non c’è trama, non c’è finalità, non ci sono legami tra le mille vicende di cui il “padre di Lison” è protagonista: anche se protagonista è una parola grossa a fronte di un uomo che racconta solo di sé e di ciò in cui di anno in anno è coinvolto e di cui ha scarsissime responsabilità. In effetti il protagonista non è autore e attore della sua vita, come un eroe greco, ma più semplicemente vive! O sopravvive? Come se la vita gli fosse stata data e non da lui scelta! A meno che oggi non sia eroico sopravvivere alle mille insidie del mondo contemporaneo a fronte delle quali le avventure di Ulisse possono sembrare bazzecole! Un’altra modalità di eroismo!? Ma questo è un altro discorso.
E storia di un corpo perché? Perché in effetti, al di là, o meglio al di qua degli ideali più nobili e dei discorsi più elevati, i conti li dobbiamo sempre fare con la nostra salute. E forse è eroico proprio questo arrendersi, se possiamo dire così, nei confronti delle quotidiane sfide che la vita ci propone e con cui ci dobbiamo cimentare. È un vero e proprio rovesciamento del reale, come in genere lo chiamiamo, che Pennac/padre di Lison vuole rappresentarci. In genere un diario è fatto di parole nobili, o che riteniamo tali, che vogliamo anche rendere altisonanti. Il “piccolo” del vivere quotidiano è rivisitato dal “grande” dell’interpretazione che il soggetto vuole dare. Un mal di pancia difficilmente entra in un diario, ma una rosa donata è occasione di una pagina ricca di sentimento – si dice così – anche se la scrivente è uscita vincente da una diarrea di cui non deve e non vuole assolutamente darci conto. E una pena d’amore è fatta di parole elevate più che di tranquillanti per alleviare la sofferenza che ci stringe lo stomaco… difficilmente il cuore, anche se è più poetico! Il diario che ci propone Pennac è più suggestivo sotto questo aspetto. Centro dell’attenzione sono gli stati del corpo – addio stati d’animo – che poi, a farla breve, condizionano effettivamente il bello e il brutto che il nostro quotidiano vivere ci propone.
In una giornata del giugno 1940, il protagonista ha 16 anni, “incontriamo persone che camminano curve, con lo sguardo vuoto, i gesti lenti. Alcuni sono proprio persi. Nel vero senso della parola. Profughi laceri, cenciosi, con la barba lunga, che vagano per le vie di una città che non conoscono. Faccio fatica a immaginare che solo un mese fa conducevano, a Parigi, una vita normale. Corpi alla deriva” (p. 78). E vediamo come la poppata di un neonato, sempre accolta come uno degli atti più suggestivi del mondo, venga invece ricondotta alla cruda realtà. “I neonati sono energia predatrice allo stato puro. Si abboffano spudoratamente. Senza sonno non c’è riposo. E di sonno, per l’appunto, ce n’è ben poco per i genitori… Rimpiangono… i secoli felici in cui i figli delle classi alte prosciugavano le mammelle del popolo” (p. 210). E quando il protagonista raggiunge la settantina, le preoccupazioni per il corpo aumentano giorno dopo giorno. “Il mio tasso di glicemia è preoccupante, i valori della creatinina sono altissimi, gli acufeni mi creano sempre maggiori interferenze, la cataratta rende il mio orizzonte sfocato, mi sveglio ogni mattina con un nuovo dolore; la vecchiaia, insomma, avanza su tutti i fronti, ma io provo una sola paura: la paura di Alois Alzheimer!” (p. 260).
E poi il nostro supera l’ottantina, ma il tumore lo disfa giorno dopo giorno. “Più mi avvicino al termine, più ci sono cose da annotare, e meno ne ho forza. Il mio corpo cambia di ora in ora. La sua disgregazione si accelera man mano che le funzioni rallentano. Accelerazione rallentamento… Mi sento come una moneta che finisce di ruotare su se stessa” (p. 332). E poi la fine del diario e la fine annunciata del suo corpo: “87 anni, 19 giorni – “Adesso, mio piccolo Dodo, è ora di morire. Non aver paura, ti faccio vedere io come si fa” (p. 333).
Insomma, possiamo dire che non si tratta di un diario nel senso tradizionale del termine, ma di un diario “altro”. Forse, se non è un romanzo, non è neanche un diario, ma un verbale! Si può dire così? Non so, ma, mentre un diario è sempre più un commento che un fatto, il verbale è più un fatto che un commento. Gli eventi e gli oggetti sono dominanti nel cosiddetto “romanzo del corpo”, e la loro rappresentazione, nuda e cruda, ne è anche il commento, o meglio la chiave espositiva più che narrativa, se mi è concesso dir così. Pennac ha scelto un modo diverso di raccontare: siamo lontani dalle storie, ora complesse, ora coinvolgenti, ora divertenti, nel senso etimologico della parola, della “Prosivendola” o del “Signor Malaussène”. Ha scelto un’altra strada, o forse ci ha voluto offrire un’altra chiave di scrittura e, quindi, di lettura. Il punto di vista del corpo, o meglio il protagonismo del corpo, indubbiamente costituisce una scelta nuova e originale. Che nello stesso tempo è punto di vista e punto di narrazione, ma con assoluta continuità… e contiguità. Un esperimento pienamente riuscito, almeno secondo me!
Maurizio Tiriticco