Parole di giorni lontani… e di giorni un po’ meno lontani
articoli correlati
A sei anni dall’uscita del primo volume, Tullio De Mauro pubblica la seconda parte della sua “autobiografia linguistica”, rievocando, dopo gli anni dell’infanzia, quelli della giovinezza, fino alle soglie della maturità e alla nascita del “linguista” che tutti conosciamo. “Parole di giorni lontani” (2006) e “Parole di giorni un po’ meno lontani” (2012), il Mulino, Bologna.
Tullio De Mauro, Torre Annunziata, classe 1932, infanzia trascorsa a Napoli fino al 1942 quando, dopo il bombardamento a tappeto del 4 dicembre, si trasferisce con la famiglia a Roma. Il marchese Cubbe era sicuro: “colpiranno giorno dopo giorno tutte le città, e Napoli per prima, la più vicina, la più esposta. Solo Roma, forse, si salverà. C’è il Papa, ci sono i monumenti, forse sarà città aperta” (p. 141, primo volume).
I primi dieci anni a Napoli, la scuola elementare e la scuola media riformata dalla “Carta della scuola” di Bottai, con il latino di sempre e… con qualche lavoretto manuale; lo prevedeva la riforma: studio e lavoro, ma anche “libro e moschetto fascista perfetto”: un insegnamento per un pensiero unico, con le adunate del sabato, la cultura militare e la mistica fascista che servivano egregiamente ai fini della dittatura. E gli altri dieci anni a Roma, in quel di Piazza Bologna: il ginnasio, il liceo, l’università. Nel primo volume l’infanzia e la prima adolescenza napoletana; nel secondo la giovinezza, la maturità, le letture “colte” e i primi incontri interessanti, dal liceo romano Giulio Cesare alla Sapienza.
Due volumi molto diversi: il primo molto sentito, ricco di tutte le emozioni che un bambino può avere, dalla scoperta dei primi misteriosi vocaboli, la cromatina, il babà, i dubat, seno e coseno, i bagni di sole, la stanza da pranzo – si dice così – e la camera da letto – si dice così! Il secondo più meditato, più colto – se si può dir così: letture e studi mirati, incontri interessanti e produttivi.
Ma, andiamo con ordine. Nel primo c’il bambino stupito e meravigliato a fronte di un mondo che deve esplorare e conoscere. Ci sono la conquista delle parole e delle cose, e le canzoni, anzi gli inni fascisti di un’Italia che deve prepararsi alla guerra: e il 10 giugno del 1940 aggrediamo la Francia, già stremata dall’invasione tedesca, e ci prepariamo a spezzare le reni alla Grecia, come nel ’35 avevamo fatto con il Negus. Anche perché dovevamo dominare l’intero Mediterraneo, il “mare nostrum”! Un piccolo Tullio che nel suo primo decennio deve fare i conti con le parole della quotidianità e con quelle della retorica imperiale e guerrafondaia: un’esperienza non semplice, ma utilissima per chi comincia ad allenarsi per diventare un linguista! Muore D’Annunzio – siamo nel marzo del ’38 – e Tullio si sorprende perché non vede i tricolori “abbrunati”: ed è la mamma che deve spiegare che “abbrunato” non va inteso nel suo senso letterale. E così è per lo “sciamare” delle foglie o per le “torride” steppe della Russia: c’è sempre l’intervento adulto a rendere espliciti significati che nella mente di un bambino, sempre fervida e produttiva, sono sempre un’altra cosa. Insomma, qua e là spunti oltremodo interessanti di analisi del linguaggio (sic!), in cui il gioco tra la “parole” e la “langue” saussuriane è sempre aperto in chi cresce, si sviluppa e apprende. L’interazione linguistica come condizione della crescita! Un bambino vivace e curioso con gli occhi aperti sul mondo, che poi è quello di un’Italietta imperiale e provinciale nel contempo. Una famiglia fascista, se si può dir così, come tutti potevamo e dovevamo essere negli anni Trenta e Quaranta, quando al bastone inferto ad alcuni si accoppiava la carota offerta ai più. Tullio ha un fratello aviatore e un secondo, Mauro, quello che poi verrà ucciso dalla mafia nel 1970, più che convinto del fascismo e della guerra, tant’è vero che dopo l’8 settembre aderirà alla Repubblica di Salò.
Tullio è un bambino intelligente e nel pieno della guerra e della carenza dei beni primari che giorno dopo giorno cominciano a scarseggiare, viene anche a sapere che qualcuno tra le persone che frequenta, anzi proprio il suo maestro, a detta del fratello Mauro, ormai pronto per partire per il fronte greco, era antifascista: il pensiero unico è messo alla prova!. Più tardi la fame, le bombe, i fronti aperti dalla Russia all’Africa del Nord insinuano alcuni dubbi nel piccolo Tullio, anche se in famiglia si preferisce non parlare, anche perché, come diceva un manifesto, il nemico ti ascolta, e il disfattista era sempre pronto a gettare discredito sulle sorti del conflitto. Insomma, Tullio crescendo si dimostra intelligente e preparato quanto basta per aspirare agli studi liceali, là dove il latino era la materia discriminante. E fu così che il professor Cocchia, “assai popolare a Napoli per la sua dottrina” propose al piccolo Tullio alcune domande. “Il referto fu positivo: ne sapevo abbastanza di grammatica e di sintassi italiana e avrei senza dubbio potuto studiare latino. Fui iscritto, nell’autunno del 1942, al ginnasio-liceo Sannazzaro, alla succursale di via Cimarosa, a poca distanza da casa” (p. 128, primo volume). Ma il 4 dicembre Napoli subisce il primo bombardamento a tappeto. Si apre quindi la strada per Roma.
Il secondo volume è un’altra cosa. È molto diverso! Si avverte che è stato scritto perché sollecitato – e giustamente – da molti. Non ha la freschezza e l’ingenuità del primo, nato quasi, a mio vedere, da una necessità di raccontarsi – la potenza esplorativa e creativa dell’autobiografia – dove in effetti si racconta di un bambino che si affaccia sul mondo e lo descrive per quello che è, con tutti i suoi stupori, le sue incertezze, i suoi interrogativi! Qui, invece, c’è già l’adulto – diciamo così – che sa quello che vuole, che fa letture intelligenti e colte, che sembra compiacersi di osservare il ragazzo che cresce! E in effetti se ne compiace! Là invece c’è il bambino che esplora e costruisce il suo mondo con l’incanto e l’ingenuità che gli sono congeniali. Insomma, il primo volume ha un’autenticità che, a mio vedere, non ha il secondo. Del resto lo dice lo stesso autore: “Non ho scritto di getto le pagine di questo ulteriore manipolo decennale di ricordi linguistici personali tra l’inverno del 1942 e l’autunno del 1952” (p. 7). Insomma, il fascistello del primo volume è più accattivante del giovane che, ovviamente, in un restaurato clima di democrazia, non può non rendersi conto di ciò che il fascismo è stato. Del resto anche Mauro, il fratello, ha fatto il suo percorso verso la democrazia! E c’è anche un po’ di saccente autocelebrazione! La specificità delle letture, quasi tutte mirate ormai, perché la vocazione si sta affinando! Comunque, c’è la Roma che io stesso ricordo e che ho vissuto: l’occupazione tedesca, la borsa nera, la bomba sulla via Nomentana; nel libro non ci sono le Fosse ardeatine perché noi ragazzi non sapemmo nulla! Solo dell’attentato di Via Rasella. C’è Mauro che sceglie la Repubblica sociale. Anche alcuni miei compagni di classe la fecero! Anch’io ho frequentato il Giulio Cesare. Esperienze e sensazioni comuni! Nel secondo volume c’è il ragazzo che si interroga più che stupirsi, si pone domande, quelle stesse domande che tutti ci ponemmo dopo il 25 luglio e l’8 settembre: la natura del fascismo, le ragioni di un conflitto più che mondiale rispetto a quello del ’15-’18, il perché di un’altra guerra che “altri” chiamavano di Liberazione. Comparvero come dal nulla partiti e movimenti e cominciammo ad assaggiare una libertà di stampa su cui però ancora con il governo Badoglio si esercitava la censura: colonne di piombo interrotte da spazi bianchi! E la nostra curiosità di lettori nuovi a una stampa “libera”: che cosa ci sarà stato scritto in quegli spazi bianchi?
Tutte cose assolutamente nuove per un ragazzo di poco più di dieci anni. Il lento passaggio da un fascismo da balilla a un antifascismo da cittadino di una Repubblica democratica nata dalla Resistenza, e senza alcuna enfasi. E i nuovi incontri: tra i tanti Marcio Pannella, Gabriele Giannantoni, Stefano Rodotà. E gli autori americani! “La Luna è tramontata” di Steinbeck. E i nostri autori: Omodeo, Croce, De Sanctis, Giorgio Pasquali. E poi l’ipotesi di andare alla Normale di Pisa. Era nata così. All’esame di maturità, Tullio, un po’ impelagato tra i tanti fogli della brutta del tema e incerto di come ricopiarli in bella copia secondo le prescrizioni di rito, chiede al professor Marchi, un membro esterno, come doveva scrivere; e il prof Marchi rispose candidamente con un sereno “Scrivi come mamma t’ha fatto” (p. 163). Poi l’interrogazione in latino e greco e ancora il professor Marchi chiede a Tullio che cosa aveva in mente di fare. E Tullio risponde: il professore, che gli pareva il mestiere più bello del mondo. E Marchi di rimando: “Sa che cos’è la Normale di Pisa?” (p. 166). E Tullio accarezzò con piacere questa ipotesi, ma… “La prova alla Normale si avvicinava. I quindici giorni di lontananza mi avevano fatto sentire assai forte il legame con la mia compagna lontana. Lei mi spingeva ad andare a Pisa. Preferii non farne niente e restarle vicino a Roma. Tradendo il buon professor Marchi, mi iscrissi alla Facoltà di lettere alla Sapienza, lettere antiche, filologia classica” (p. 167).
E qui finisce il ragazzo e nasce l’uomo, il linguista, il valente linguista che tutti conosciamo e che tanto ci ha dato sia nella ricerca di alto profilo che nella ricerca didattica: un professore che insegna ai professori… e ai maestri! Grazie Tullio!
Maurizio Tiriticco