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Un palazzo a Trastevere

Pubblicato il: 09/01/2013 20:03:25 -


Per gli studenti dei licei romani è un appuntamento fisso, come per gli insegnanti precari delle varie regioni d’Italia: “davanti alla Pubblica Istruzione, quel palazzaccio grande di viale Trastevere!” Un appuntamento quasi gaddiano tra i manifestanti.
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Il Palazzo ministeriale, simbolo della scuola italiana e di tutti i suoi nodi tematici, è a metà del viale, con un labirinto di vicoli alle spalle e davanti a Porta Portese. Una collocazione popolar-romanesca e cosmopolita allo stesso tempo, dato il melting pot del mercato domenicale, la cui vicinanza può aver dato la cifra alle interminabili trattative sindacali che si sono svolte nei suoi solenni saloni.

Il più importante è quello centrale, al secondo piano, con le pareti ricoperte dai ritratti dei vari Ministri fino a Benedetto Croce… dopo di lui la tradizione è stata opportunamente interrotta.

Sull’altro lato del viale c’era il Palazzo degli Esami – l’edificio, recentemente restaurato, c’è ancora, sono i pubblici concorsi che non ci sono quasi più o hanno cadenze ultra-decennali – e questo dava l’idea del tragitto breve che ti aspettava dopo la laurea, all’epoca della scolarizzazione di massa.

Entravi a Via Induno per il concorso e, all’uscita, l’imponente palazzo Bazzani (dal nome dell’architetto che lo progettò a partire dal 1912), con il suo volto austero ma trasteverino, era lì ad accoglierti. E anche se le cose non andavano proprio così, era così che pensavi dovessero andare. Già, ma chi lo pensava? Sicuramente la generazione nata nel lungo dopoguerra: per molti di noi lavorare per il pubblico era sempre nobile, per il privato quasi mai. Una generazione, insomma, con sinistri pregiudizi, ma con intenzioni sincere e che, ora, sta lasciando o ha già lasciato quei Palazzi romani del potere. Palazzi che spesso con l’imponenza delle facciate hanno mostrato l’impotenza degli uffici nello sforzo di sciogliere quei nodi che sembravano non dover venire mai al pettine. Quella generazione rifiutava culturalmente e anche politicamente l’idea di essere burocrati, come lo erano stati i predecessori, molti dei quali avevano percorso una lunga carriera prima nell’era fascista e poi in quella democristiana.

L’essere ora (eravamo negli anni ‘70) “in organico” nei Ministeri di una Repubblica ancora giovane dava una spinta eccezionale ai loro propositi e alla voglia di interpretare un ruolo significativo in un’opera aperta. La chiave per il copione era data dalla norma costituzionale che ha affermato la necessità di assicurare, da parte degli uffici pubblici, “il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.” Un principio di indipendenza diretto a cambiare il DNA dell’organizzazione degli uffici e quello di funzionari e impiegati.

Quella generazione arrivava nel turbine di questo cambiamento, dato che la burocrazia bianca, che aveva solo in parte sostituito negli anni ‘50 e ‘60, quella nera dello Stato fascista aveva dimostrato significative incertezze nella fase del cambiamento.

Imparziali verso chi? con chi? E, soprattutto, perché? dato che le nuove influenze politiche determinavano gestioni e carriere.

Un apparato arretrato e servile per troppo tempo sembrava ancora riluttante a facilitare il cammino di uno Stato moderno.

Quando Pertini si accorse che il suo ex carceriere a Ventotene era diventato questore di Milano, all’epoca della strage di Piazza Fontana, tutte le persone di buona volontà capirono quanta strada c’era ancora da fare dentro quei Palazzi, e quanto tortuosa e seminata di ostacoli sarebbe stata quella strada.

Perché l’impasto era più complesso sul piano storico e sociale: nell’immaginario sociale la burocrazia appariva come uno dei mali endemici dell’Italia, con la quantità e l’opacità delle procedure, con la sensibilità alle clientele politiche, con l’eccesso degli addetti, con l’indifferenza di fronte all’etica della responsabilità. E soprattutto con quella caratteristica, tutta italiana, pre e post-fascista della doppia lealtà al Partito (di turno) e allo Stato. Ma con il passare del tempo poi si è visto che quando la lealtà è doppia a prevalere è sempre la prima.

Dagli anni ‘70 molte cose sono cambiate profondamente e la divisione tra indirizzo politico e gestione amministrativa ha indubbiamente contribuito a spianare la strada ad apparati più efficienti, funzionali e trasparenti.

Eppure i più critici ci avvertono che il Leviatano è solo addormentato, che è pronto a riprendersi il terreno perduto a riattivare i suoi tentacoli su appalti, concorsi, carriere e poltrone.

È la lotta di un Davide quasi inerme contro il potente Golia, che non finisce con la necessità storica della vittoria del primo, e soprattutto non finisce. Non è finita.

La gestione e perfino l’organizzazione amministrativa, in realtà, è molto appetibile e se nel privato tra proprietà e management la connessione è evidente ma con ruoli definiti, nel pubblico l’indirizzo politico è pervasivo e tende sempre più a invadere il territorio gestionale, con evidenti danni per il buon andamento e l’imparzialità della p.a.

Gli anni ‘90 per quella generazione diedero il segno del riscatto, Golia aveva vacillato sotto le fiondate di quei tanti nuovi responsabili e la società stessa aveva tanta voglia di combattere almeno qualcuno di quei mali strutturali. Per la scuola italiana, negli anni di fine XX secolo, era maturata una stagione di potente innovazione, nella consapevolezza che ogni iniziativa riformatrice dovesse comunque trovare fondamento su una rigorosa sostenibilità finanziaria.

Le norme di Bassanini sulla pubblica amministrazione e quelle di Berlinguer sulla scuola segnavano il cambiamento di prospettiva. Le tematiche educative entravano in un cono di luce che ne illuminava la necessità per la stessa evoluzione sociale.

Così la priorità dell’istruzione, il riordino dei cicli scolastici, l’autonomia delle scuole dovevano trovare attuazione e sviluppo sulla base di nuovi parametri che riconducessero la spesa per l’istruzione in un alveo più sicuro. Una spesa funzionale agli investimenti necessari e basata su parametri che riguardavano: la razionalizzazione della rete scolastica sull’intero territorio nazionale, un rapporto equilibrato alunni/classe, un rapporto docente/alunni nella media OCSE, il riassorbimento del precariato e il reclutamento concorsuale di giovani laureati e un ambizioso piano nazionale per l’informatica.

Nel Palazzo di viale Trastevere nulla era più come prima, c’era un autentico spazio per chi fino ad allora aveva voluto interpretare un ruolo adeguato ai tempi, di esprimere tutte le proprie potenzialità in quel processo evolutivo che investiva la scuola italiana.

La figura del burocrate, in quella stagione nuova ma lungamente preparata, era connotata dall’esercizio mite del potere nel dispiegarsi dell’azione amministrativa con una netta inversione di tendenza rispetto anche al recente passato.

Palazzo Bazzani è, simbolicamente, il luogo che eroga maggiore spesa pubblica rispetto alla maggior parte degli altri Palazzi romani, da qui l’imperativo etico che ogni gestione di denaro pubblico deve necessariamente comportare: l’esercizio del potere, piccolo o grande che sia, va coniugato con la responsabilità degli addetti ai lavori. Che non è sola quella contabile, ma è una responsabilità confinante con la politica sull’effettivo costo di un servizio pubblico essenziale, con la consapevolezza che l’aumento esponenziale dei costi di un servizio, come la scuola e la sanità, comporta come conseguenza un aumento del carico fiscale.

Con la fine degli anni ‘90 e della legislatura che terminò nel giugno del 2001 è iniziata una stagione di restaurazione con la fulminea abrogazione di tutte la norme che ne avevano segnato il cambiamento. Un esempio per tutte riguarda l’anomala ed eccessiva lunghezza del ciclo di studi che attualmente comprende la scuola primaria e la secondaria di I grado: nel febbraio 2000 la legge n. 30 del ministro Berlinguer ne ridusse di un anno il percorso, nella considerazione che un contesto educativo moderno consente maggiori dinamismi e anticipazioni rispetto al passato. Tale riordino dei cicli scolastici rappresentava anche un valido strumento per ridurre e qualificare la spesa per l’istruzione, ma fu immediatamente cancellata l’anno successivo dal governo di centro-destra.

Era iniziata una stagione, che stenta a concludersi, in cui la crescita dei livelli di istruzione in Italia non è più avvertita come una priorità, nonostante gli accorati appelli di più parti, Banca d’Italia compresa. Se la stagione precedente aveva dimostrato che proprio aver stabilito parametri per la sostenibilità della crescita era la condizione necessaria per le riforme, ora l’appiattimento sull’esigenza di riduzione dei costi nel settore oscura ogni altra prospettiva. Il cono di luce sulla scuola è stato spento. Con la ricetta “meno insegnanti meno investimenti”, a fronte, tra l’altro, di un incremento della popolazione scolastica, si è verificato un arretramento culturale complessivo della società che prima o poi ci presenterà un conto salato, all’insegna di “meno cultura meno sviluppo e maggiore disuguaglianza sociale”. Perché la crescita dei livelli di istruzione è un bene da proteggere, come lo è stato la scolarizzazione di massa degli anni ‘60 e ‘70, come lo è la mobilità sociale che rischia di venire azzerata da una scuola non sufficientemente attrezzata a “rimuovere gli ostacoli” di costituzionale memoria, ma che tende inevitabilmente a confermare e a riprodurre le ineguaglianze.

Una compatibilità tra crescita e costi è la nuova frontiera che potrebbe affacciarsi nella prossima legislatura, così anche il cono d’ombra proiettato sulla scuola da una stagione di restaurazione può essere spento. Perché sembra già risuonare, con rinnovata forza, il monito di Piero Calamandrei, che individuava nella mobilità sociale il principale compito della scuola.

“Ora quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali” diceva Calamandrei nel febbraio 1950 al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale “a tutti verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della repubblica, la magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. Gli organi ematopoietici, quelli da cui parte il sangue che rinnova giornalmente tutti gli altri organi, che porta a tutti gli altri organi, giornalmente, battito per battito, la rinnovazione e la vita.”

Le generazioni di burocrati si succedono le une alle altre nel nome rassicurante della “continuità”. Per fortuna o per accidente elementi di discontinuità turbano però la consuetudine e il placido galleggiare delle scrivanie. Questo è un augurio da formulare alle nuove leve.

Piace a chi scrive attribuire un po’ del merito di quella stagione al “genius loci” che vive in quel Palazzo di Viale Trastevere e che negli anni è stato nutrito dalle storie ed esperienze di chi vi ha lavorato.

Una facciata con statue e gruppi scultorei caratteristica del gusto scenografico di Cesare Bazzani, un Palazzo così diverso e così uguale agli altri palazzi romani del potere. Così trasteverino e disincantato, ma anche così esposto e indifeso di fronte a studenti e professori, che chi lo abita può coltivare la speranza di essere, per qualche momento, sulla scena e non nascosto dietro le quinte.

Giuseppe Fiori

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