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“Non ho tempo”: intervista ad Ansano Giannarelli (prima parte)

Pubblicato il: 29/01/2010 18:08:36 - e


Dal film “Non ho tempo” di Ansano Giannarelli: Galois (Mario Garriba): “L’allievo, quindi, si occupa unicamente di sostenere l’esame, senza badare minimamente ad imparare qualcosa. Su ogni teoria, lo studente ha bisogno di lunghe ripetizioni, si deve informare dei metodi che gli esaminatori prediligono e…”.
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È nato a Viareggio il 10 giugno del 1933, ha lavorato con Monicelli e Zavattini, ha diretto oltre 40 film, corto e mediometraggi, ha vinto numerosi riconoscimenti, ha diretto trasmissioni per la tv (didattiche e culturali, telefilm, teatri-inchiesta), ideato manifestazioni audiovisive (come il Festival Internazionale Cinema Giovani di Torino), lavorato per la pubblicità, ha insegnato dal 1996 al 1999 “Cinematografia documentaria” e “Teoria e tecnica del linguaggio cinematografico” al DAMS dell’Università di Bologna. È stato presidente della Fondazione Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico. Carlo Nati e Linda Giannini l’hanno intervistato per Education 2.0 su uno dei suoi lavori più famosi.

Dal film “Non ho tempo” di Ansano Giannarelli: Galois (Mario Garriba): “L’allievo, quindi, si occupa unicamente di sostenere l’esame, senza badare minimamente ad imparare qualcosa. Su ogni teoria, lo studente ha bisogno di lunghe ripetizioni, si deve informare dei metodi che gli esaminatori prediligono e…”.

D: All’inizio degli anni Settanta, lei scrisse e diresse il film “Non ho tempo” che si ispirava alla vicenda del matematico francese Evariste Galois, morto giovanissimo in seguito a un duello. Alla luce della sua esperienza didattica, prima da discente e poi da docente universitario, pensa che ancora oggi lo studente spenda molte energie a memorizzare e ripetere ciò che il docente vuole ascoltare dai propri allievi, “senza badare minimamente ad imparare qualcosa”? Le riflessioni proposte da Galois, interpretato da Mario Garriba nel film, possono considerarsi ancora attuali?

R: Come “discente”, mi ricordo una bellissima esperienza quando facevo la terza media. Non ero molto capace nel disegno a mano libera, e tentavo goffamente, con la mano incerta, di “copiare” gli oggetti – molti vasi, naturalmente – che la insegnante metteva sulla cattedra: tracciavo righe senza la curvatura corretta, cancellavo, ricominciavo, con risultati sconfortanti. Soffrivo molto sia della mia incapacità sia di essere costretto ad applicarmi in qualcosa che non mi divertiva, non mi dava alcun piacere, mi lasciava rigido e “negato” al disegno com’ero già. Poi arrivò un supplente, che era un pittore. Anche lui mise un’anfora sulla cattedra, ma poi cominciò ad aggirarsi tra i banchi. Quando mi arrivò vicino, mi osservò un po’, poi mise la sua mano sulla mia, e cominciò a guidarmi in una serie di linee curve sovrapposte, dicendomi che quello era un disegno “a mano libera”, mentre la mia era irrigidita. E poi mi fece vedere come, cancellando man mano ai lati quel fascio ricurvo di righe, emergeva una curva morbida, che corrispondeva alla rotondità dell’anfora. Per la prima volta mi ero divertito, per la prima volta avevo agito in un modo che sentivo adatto a me, e avevo perfino raggiunto qualche risultato. Quello che mi disse – “Traccia tante righe, le une sulle altre, e poi cancella quelle che ti sembrano meno riuscite, ne resteranno poche, e tra queste forse riuscirai a vedere quella migliore” – mi rimase dentro, per anni in modo inconsapevole. Poi, in seguito, riflettendoci, capii che era stato un episodio che riguardava opposizioni come nozionismo e creatività, accademia e laboratorio, imitazione e tentativo di esprimere il proprio punto di vista. Ci ripensai anche quando cominciai a fare esperienze di montaggio filmico, tanto materiale tra cui scegliere, il risultato era togliere, tagliare tanto. Sempre come discente, ebbi la fortuna, in un buon liceo di Roma, il Visconti, di avere un paio di insegnanti ai quali devo tuttora una grande passione per tutta la produzione culturale della Grecia, più che una conoscenza di regole grammaticali che ho del tutto dimenticato, o un’attenzione, per esempio nella poesia italiana (in particolare Leopardi), più al “pianto delle cose” che al “pianto sulle cose” (per citare De Sanctis).

All’università, come docente a contratto, non ho avuto grandi rapporti con gli altri docenti. Si limitavano per lo più alle sedute di laurea, quando io ero relatore o correlatore di qualche studente. Le osservazioni, durante le discussioni, molto spesso vertevano sull’esattezza della filologia, sullo scarso rispetto di quanto acquisito dalla ricerca storica o estetica, sui riferimenti agli insegnamenti svolti o su eccessi di posizioni eterodosse. Ricordo una discussione che ebbi quando chiesi se gli studenti dovevano esporre tesi condivise dai docenti, o invece le loro “tesi”: appunto posizioni, interpretazioni, punti di vista elaborati da loro, con tutti i limiti ma anche con tutta la tendenziosità e in certi casi la genialità giovanile.

Complessivamente, l’impressione è che si fosse tornati alla forma tradizionale dell’insegnamento, esposizione di contenuti più che proposte di metodologie, insomma di nuovo accademia e poco o nulla di laboratorio. Mi invitavano a tenere corsi e seminari forse proprio per la mia diversità, ma mantenendo le distanze nei confronti della mia “diversità” ed eterodossia. E quindi, sì, penso che le considerazioni di Galois siano ancora attuali. Mi sembra che collaborazione e condivisione siano ancora minoritarie, nelle proposte e nei metodi d’insegnamento, e stimolo alle domande, ai dubbi; e che l’umiltà di dire “sono arrivato fin qui, ma non so il resto” sia proprio una rarità.

Dal film “Non ho tempo” di Ansano Giannarelli: Richard (Lucio Lombardo Radice) si presenta agli studenti: “Non voglio farvi io una lezione dalla cattedra, vorrei piuttosto, così alla pari, insieme, fare una discussione sulla matematica, non una lezione di matematica. I matematici non deducono, i matematici spiano, sondano, sollecitano la scienza e quando giungono a risultati nuovi vi giungono come a tentoni, direi quasi per caso”.

D: L’affascinante storia del matematico francese viene raccontata affiancando la finzione scenica con riprese documentaristiche e interviste, sperimentando un linguaggio che secondo Giovanni Ganino “dissolve le strutture tradizionali della narrazione filmica”. Alla luce delle produzioni televisive destinate alla divulgazione scientifica, pensa che il tempo le abbia dato ragione?

R: La mia intenzione di fare una biografia filmica non tradizionale è evidente nel fatto che proposi di collaborare alla sceneggiatura un personaggio come Edoardo Sanguineti. Concordammo subito su una serie di elementi:
? non romanzare;
? immergere il personaggio nella sua epoca;
? utilizzare tutti i documenti possibili per i dialoghi (da quelli pertinenti direttamente Galois alla produzione letteraria dell’epoca: diari, romanzi, epistolari, scritti sociologici ecc.);
? accentuare il rapporto tra il presente e il passato, facendo sentire esplicitamente allo spettatore il peso e il punto di vista del presente;
? non entrare nel dettaglio di una spiegazione delle teorie di Galois, per la grande difficoltà del suo pensiero matematico e dell’astrattezza con cui era espresso, ma cercare di dar conto di una genialità che nasceva certo dalla giovanissima età (Lucio ci ricordava che le grandi intuizioni della storia della matematica sono state fatte quando i loro autori erano giovanissimi), ma era spinta anche dalla sua passione civile e politica, dalla sua intransigenza.

Quest’ultima decisione, condivisa da Lombardo Radice – che magari aveva invece qualche perplessità su un eccesso di straniamento e di antiromanticismo scelto come stile per tutto il film – comportò la rinuncia consapevole a fare opera di divulgazione scientifica specifica. Tutto sommato continuo a pensare ancora oggi che facemmo bene, anche se forse avremmo dovuto tentare qualcosa di più anche riguardo a quell’aspetto.

Ma forse l’elemento di maggior interesse – per quel che mi riguarda – è la struttura complessiva che ipotizzammo. Concordavamo sul fatto che, nel campo dell’espressione con ambizioni artistiche, fondamentale era l’aspetto formale, che era con una forma partecipativa che si potevano valorizzare contenuti progressisti. Volevamo fare un prodotto adatto alla televisione, che era la committente. Mescolare le diverse modalità del linguaggio televisivo: la ricostruzione, l’inchiesta, l’uso dei materiali di archivio, modificandoli però e stravolgendoli, mettendoli a confronto e in conflitto dialettico tra di loro.

La committenza aveva chiesto un film, da proiettare prima nelle sale, e poi in tv. Io “raccolsi” materiale filmico con cui realizzai due prodotti. Uno fu il film di 90’, che poi fu presentato a Cannes nel 1972. L’altro – che è quello a cui tengo di più – fu uno “sceneggiato” in tre puntate, complessivamente di 180’. Fu un lungo braccio di ferro per farlo accettare dalla Rai. Rimase bloccato per anni, prima della messa in onda: penso non soltanto per ragioni politiche, ma anche per la sua forma.

Ora – lasciatemi fare un po’ di pubblicità per un film non rintracciabile altrimenti – è acquistabile il dvd delle tre puntate, a € 5,90, ordinandolo direttamente a www.perlacultura.rai.it, nella sezione “Fiction – Uno sguardo sulla storia”, grazie all’interessamento di un dirigente Rai attento come Renato Parascandolo.

Interpreto la domanda se il tempo mi abbia dato ragione più riferita al tentativo innovatore di una biografia televisiva che alla divulgazione scientifica. Direi proprio di no. Sulla strada che la versione televisiva di “Non ho tempo” comunque proponeva, direi che negli anni successivi, anni Ottanta, per intenderci, fino a oggi, la regressione sia impressionante, le barriere diventate insormontabili. Un carattere sperimentale come quello diventò man mano inaccettabile. Però può darsi che quel tentativo mantenga un qualche interesse.

(continua)

Per approfondire:
? http://www.ansanogiannarelli.it/

Carlo Nati e Linda Giannini

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