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In nome del popolo italiano

Pubblicato il: 26/11/2010 13:02:25 -


“‘Io a scuola ci andavo e all’inizio cercavo pure di ascoltare, ma non capivo quello che diceva il prof., e anche quello che c’era sui libri, non mi diceva nulla’. In realtà era la scuola a non aver capito che si può apprendere in tanti modi, che si deve partire dalla vita e non da una pagina di libro per cercare la leva della motivazione ad apprendere”. Estratto da un racconto di Dario Missaglia contenuto nel libro “Educo Ergo sum”, edito da Ediesse.
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La sala per le udienze preliminari del tribunale per i minorenni di Roma è al piano terra di una palazzina d’epoca che si affaccia sul lungotevere. Lì avrei esercitato la mia funzione di giudice onorario aggregato al Gup della Dott.ssa Maria Teresa Spagnoletti.

Marco era un cliente abituale del tribunale. La sua vita consisteva nel rubare nelle macchine. Marco viveva da solo con una mamma oramai distrutta dagli stupefacenti; il padre non lo aveva mai conosciuto. Dopo le elementari, si era iscritto alla scuola media; bocciato il primo anno, bocciato il secondo. A quel punto decise che la scuola non era per lui. La scuola del resto non si preoccupò gran che della sua assenza, malgrado la legislazione sull’obbligo scolastico.

Marco era napoletano, con una vena impagabile di simpatia e una capacità di simulazione senza limiti.

Una volta fu sorpreso dal proprietario di un’auto che stava “ripulendo”. Figurarsi la scena; il proprietario pronto a una esecuzione sul posto e Marco che cercava di spiegargli che si stava sbagliando: quella era l’auto di suo zio e lui stava cercando un cd da ascoltare. Era così convincente che l’uomo era stato assalito dal dubbio e si era spostato per controllare la targa. Tanto era bastato a Marco per uscire a razzo dall’auto e scomparire.

Ma ovviamente il più delle volte Marco veniva pizzicato. Ricordo che un giorno gli chiesi perché avesse abbandonato la scuola. “Perché non ci capivo niente, giudice”. “Ma tu andavi a scuola, facevi un po’ di sforzo per stare attento?”. “Certo, io a scuola ci andavo e all’inizio cercavo pure di ascoltare, ma non capivo quello che diceva il prof., e anche quello che c’era sui libri, non mi diceva nulla”.

In realtà era la scuola a non aver capito che si può apprendere in tanti modi, che si deve partire dalla vita e non da una pagina di libro per cercare la leva della motivazione ad apprendere.

E così Marco si era convinto di essere un incapace. Per questo era spesso ospite nel carcere minorile. Tuttavia, costretto a incontrare i giudici molto di frequente, aveva capito benissimo la differenza tra furto e rapina, le possibili attenuanti e aggravanti. E faceva buon uso dei suoi apprendimenti, stando sempre attento a non varcare il limite. Non solo, aveva anche capito le procedure di calcolo e la personalità dei diversi presidenti dei collegi penali, perciò era in grado di prevedere per tanti suoi compagni il probabile esito del processo. Per questo, a Rebibbia, lo chiamavano “l’avvocato” ed era sempre cercato dai suoi compagni.

Fu all’ennesima permanenza in carcere che Marco fu avvicinato da un educatore che, per la prima volta gli fece vedere non quello che non sapeva ma ciò che sapeva fare, e bene.

Iniziò da lì un percorso che lo avrebbe condotto a prendere la licenza media con le 150 ore e poi a fare un corso di formazione professionale da meccanico.

Quando lo incontrai in carcere, mi venne incontro con un sorriso solare. “Venite giudice, venite” e mi condusse nel laboratorio di meccanica. “Questo è il mio capolavoro”, mi disse indicandomi una parte di motore di auto, lucida e compatta. “L’ho smontata, pulita, lubrificata come si deve e il maestro mi ha detto che ho fatto un lavoro ottimo”, aggiunse con visibile soddisfazione.

Mi intrattenni allora con il maestro meccanico di Marco. Vincenzo – questo era il suo nome – contava una lunga esperienza con i ragazzi del carcere: “So’ bravi ragazzi basta saperli prendere. Come? Semplice. Per prima cosa li metto vicino a me e gli racconto il pezzo che dobbiamo fare e quale deve essere il risultato. Alla fine gli chiedo: hai capito bene? Se non ha capito lo rispiego, se no passo alla fase due: faccio il pezzo e gli spiego passo passo quello che faccio. Ogni tanto mi fermo e chiedo: hai capito bene? Se mi dice di sì vado avanti, se no glielo rispiego. Poi rifaccio il pezzo ma stavolta le cose più semplici inizia a farle lui, piano piano e il risultato arriva. La quarta volta inizia proprio lui e stavolta sono io che mi metto vicino. Se vedo che lavora bene gli dico pure bravo, se no intervengo, correggo, lo richiamo. La quinta volta gli dico: ‘mo fai tutto da solo, e me ne vado. Torno solo quando mi chiama; vuol dire che c’è riuscito e allora facciamo festa”.

Vincenzo mi aveva fatto in pochi minuti una lezione di pedagogia e di didattica indimenticabile.

Il corso stava per finire ei i servizi sociali avrebbero aiutato Marco a trovare lavoro come meccanico. Quando venne a salutarmi, fui molto felice.

Non so se sia diventato un bravo meccanico o se sia tornato a rubare nelle macchine. Ma lì, grazie alla giustizia minorile, aveva scoperto per la prima volta che il futuro non è già scritto ma può ancora dipendere da noi.

E pensai con immensa gratitudine a quell’operatore che aveva capito che, se vuoi provare a salvare un ragazzo, devi innanzitutto fargli sentire che ti interessi di lui e poi puntare su quel che ha già dentro di sé.

Estratto da un racconto contenuto nel libro “Educo ergo sum”, di Dario Missaglia, 2010, Ediesse.

Dario Missaglia

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