Un manuale in muratura
Se si vogliono ottenere dei risultati, la normale vita scolastica va rivoluzionata, ma, poiché edificio scolastico e personale non si possono modificare a piacimento e la scuola non dispone più di risorse per coinvolgere protagonisti diversi, la sfida si gioca su altri elementi: volontariato e fantasia degli insegnanti.
Alla fine del primo quadrimestre, ogni anno, nelle scuole superiori si pone il problema di come organizzare il recupero delle insufficienze e il potenziamento per gli alunni che non ne presentano. Alcuni istituti vi dedicano diversi pomeriggi, mentre al mattino proseguono regolarmente le lezioni, altri fanno una pausa didattica di una decina di giorni. All’I.T.C.G. Aulo Ceccato di Thiene avevamo deciso di concentrare entrambe le attività nell’arco di una settimana. Necessariamente, se si vogliono ottenere dei risultati, la normale vita scolastica va rivoluzionata, ma, poiché edificio scolastico e personale non si possono modificare a piacimento e la scuola non dispone più di risorse per coinvolgere protagonisti diversi, la sfida si gioca su altri elementi: volontariato e fantasia degli insegnanti. “Ebbene, ci siamo”, mi son detta a gennaio: “Hic Rodus, hic salta”. C’erano da scegliere le classi (avevamo concordato in Collegio Docenti che era preferibile non seguire le proprie), da decidere se optare per il recupero o il potenziamento, da produrre i materiali e infine da trovare degli spazi dove svolgere le lezioni. Sì, perché se è relativamente semplice sdoppiare le classi, non lo è altrettanto raddoppiare le aule. Curiosamente, proprio sfruttando questa difficoltà ho risolto uno a uno anche gli altri nodi.
È incredibile come, quando si affrontano esperienze nuove, risultino preziose quelle vecchie: mi sono ricordata di avere nel cassetto una abilitazione in storia dell’arte e nella mente il desiderio di far gustare ai ragazzi le cose belle che li circondano, perciò avremmo lasciato la scuola riscaldata agli altri per avventurarci all’aperto. La nostra aula poteva diventare la città di Thiene e i vari edifici sarebbero stati le pagine del nostro libro di testo: ciò che ero in grado di offrire era dunque un coraggioso corso di approfondimento. A chi rivolgerlo? Sul mega-cartellone dove erano indicati i possibili gruppi di lavoro, notai che nessuno aveva scelto gli studenti di due classi prime del corso geometri non impegnati nel recupero di matematica. Li giudicai dei partner ideali: certo avevano fatto un po’ di storia dell’arte alle medie, ma per quanto riguarda gli edifici di Thiene dovevano essere del tutto digiuni: molti infatti, nella scuola superiore, vengono da fuori e gli “indigeni” generalmente hanno lo sguardo penetrante solo all’altezza delle vetrine, perciò potevo contare su un discreto “effetto sorpresa” per suscitare il loro interesse. Inoltre, avendo meritato la sufficienza o il sette in matematica, dovevano essere ragazzi svegli e, appartenendo al corso geometri, dovevano avere propensione e capacità di disegnare ciò che vedevano: tutte doti preziose per lo scopo che mi prefiggevo. Li scelsi senza esitazione. Il materiale necessario si riduceva a un blocco (anche quello della brutta copia), una matita e una gomma. Restava da ritagliare il programma in base alle ore assegnate, impresa non facilissima, perché avevo a disposizione tre blocchi di tre ore consecutive, ampiamente sufficienti per annoiare i ragazzi se non avessi trovato modo di variare le attività. Di nuovo mi venne in aiuto una difficoltà: dovevo iniziare dal romanico, non essendovi testimonianze architettoniche precedenti in Thiene, ma per trovarne un esempio significativo bisognava affrontare una passeggiata di quasi un’ora. Riflettei che alle 7.45 del mattino di una giornata di gennaio non c’è niente di meglio che mettersi in marcia per riscaldare i muscoli e il cuore. Altro aspetto decisivo, la camminata avrebbe permesso ai componenti delle due classi di conoscersi: infatti si riesce a imparare bene solo se ci si sente gruppo e i miei studenti non lo erano ancora.
Quindi esattamente sabato 23 gennaio 2011 bussai in 1Acat e 1Bcat, mi presentai nel modo più sintetico possibile (i colleghi stavano facendo lezione) e chiesi di arrivare il lunedì con il materiale, robuste scarpe da ginnastica, giacca a vento e berretto, annunciando che avremmo fatto un breve corso di storia dell’architettura “con i piedi”. Lasciai il resto all’aspettativa, che a quattordici anni è ancora pronta e fiduciosa.
Lunedì partimmo con 2° sotto zero e l’aria ancora rosa per l’aurora. Appena fuori dell’abitato il cielo divenne azzurro intenso e, col sole, la temperatura salì rapidamente: alle spalle avevamo le Prealpi Vicentine innevate e davanti le colline delle Bregonze su cui già si individuava la nostra meta, cioè la chiesetta di San Biagio, del secolo XII.
Chiesetta di San Biagio.
Non sto ovviamente a riferire la spiegazione, ma durante il cammino facemmo trascorrere tutto l’alto Medioevo: i secoli si misuravano in chilometri e nella pianura coltivata immaginammo il passaggio dei barbari, dotati di una evoluta arte orafa, ma ovviamente inesperti di architettura. Da chi dunque, superato il Mille, si poteva imparare se non dai resti romani ancora visibili? Ecco dunque l’origine del nome “romanico”. Ed ecco intanto raggiunta l’antica pieve. Il custode aprì la porta con grosse chiavi e i ragazzi, prima di mettersi sulla via del ritorno, osservarono e disegnarono liberamente. Rientrammo un po’ in ritardo, ma il collega responsabile della seconda metà della mattinata fu comprensivo.
Casa Pajello.
Mercoledì 27, nostro secondo appuntamento, ci soffermammo sulla facciata gotica di Palazzo Cornaggia e sul portico e la loggia rinascimentali di Casa Pajello. Ci accompagnava l’insegnante Muffolini, che – tra le altre cose – ci regalò un dettaglio che nemmeno io conoscevo: come si traccia un arco acuto, perciò annovero tra gli aspetti stimolanti del corso anche la possibilità di ascoltarsi e apprezzarsi fra colleghi.
Palazzo Cornaggia.
Tornando ai ragazzi, non era desiderabile aggiungere altro, sia per non sovrapporre troppe nozioni, sia perché, ricorrendo il Giorno della Memoria, avevamo destinato la terza ora a un’attività emotivamente difficile: la visita a una mostra sulla Shoah. Finimmo per rientrare nuovamente con qualche minuto di ritardo.
Arco a sesto acuto.
Il nostro terzo incontro avvenne il giovedì e ci portò davanti alla barocca Casa Contin. Nei tre giorni, mentre i ragazzi ascoltavano, confrontavano, ponevano domande e tentavano risposte, i loro occhi avevano imparato a leggere nuovi vocaboli: ciottoli di fiume, mattoni, pietra, marmo; ad ascoltare una grammatica fatta di muri, finestre, absidi, balaustre; a osservare la sintassi dei pieni e dei vuoti, dell’ombra e della luce, degli elementi portanti e di quelli decorativi; a comprendere il contesto degli ideali o delle paure degli uomini che avevano costruito e abitato gli edifici. Quelli che gli studenti vedevano erano testi in muratura e, connettendo i vari elementi, come avviene per i racconti, essi potevano distinguere gli stili.
Casa Contin.
Ora era necessario fissare queste scoperte ancora titubanti e nello stesso tempo occorreva spalancare gli orizzonti: ciò che rendeva interessante Thiene faceva splendido anche ogni angolo di Italia e tutta l’Europa! Il posto più adatto per cercare conferma di questa patria culturale è sicuramente la biblioteca. Arrivammo giusto all’ora di apertura e fu subito “full immersion”: il personale ci aveva preparato, su quattro grandi tavoli, svariati volumi illustranti il romanico, il gotico, lo stile rinascimentale e il barocco. Divisi in gruppi, gli studenti avevano il compito di sfogliare i libri, annotando il nome e la località di alcuni monumenti che li colpivano. Dopo ogni quarto d’ora, io e la collega spostavamo i testi, in modo che i ragazzi avessero la possibilità di riconoscere tutti e quattro gli stili studiati.
Per l’ultima mezz’ora avevo deciso di tornare a scuola, sia per non essere nuovamente in ritardo, sia per tirare le somme del lavoro svolto. Non fu necessario nemmeno in questa occasione uno spazio specifico: chiedemmo alla bidella di indicarci semplicemente un’aula rimasta libera. Lì, sempre sul loro album, ma questa volta seduti in banchi separati, i ragazzi furono invitati a rispondere a tre domande per ciascuno stile: 1) Com’era la società del tempo? 2) Qual era la concezione del mondo? 3) Quali erano i materiali e le caratteristiche tipiche dello stile? Ormai il tempo a nostra disposizione si stava esaurendo: feci leggere alcune risposte, annotando una frase dall’uno, un’espressione dall’altro.
Ecco allora il nostro Romanico: 1) la ripresa economica è lenta; è basata sull’agricoltura; la cultura risulta alla portata di pochi 2) violenze e calamità intralciano il cammino; il diverso è visto con paura 3) vengono impiegati materiali poveri; l’arco, secondo i modelli romani, è a tutto sesto; feritoie e muri massicci rendono gli interni piuttosto bui; le chiese servono per proteggere.
Il nostro Gotico: 1) si costituiscono i Comuni con i loro mercati 2) la Chiesa però ricorda che la vera patria è il cielo, perciò si deve guardare verso l’alto, mirare al paradiso 3) le tecniche sono molto più abili; gli archi acuti trasmettono un senso di verticalità; le pareti sono alleggerite da finestre multiple o vetrate; si aggiungono decorazioni (gotico fiorito).
Il nostro Rinascimento: 1) l’Italia è governata da Signori che si fanno erigere dimore raffinate e si circondano di artisti 2) questi nobili si sentono sicuri di sé, valorosi, generosi, capaci di trasformare il mondo; vogliono far rinascere l’arte classica 3) gli architetti impiegano archi a tutto sesto ma anche architravi, perché si ispirano sia ai Romani che ai Greci; usano materiali preziosi; costruiscono edifici aperti.
Il nostro Barocco: 1) sono favoriti gli stati che si affacciano sull’Atlantico, non più quelli sul Mediterraneo; l’Italia è divisa e in parte dominata da potenze straniere 2) l’uomo ha capito che non è più al centro dell’Universo; la Controriforma lo ha richiamato al timore del peccato e della morte 3) per reazione, si scelgono forme che accentuano la vita; linee curve e gonfie; edifici sovraccarichi di decorazioni; soluzioni complicate e costose; si vuole sorprendere rompendo gli schemi.
Beh, non sarà un manuale, ma in otto ore di cammino i ragazzi ne avevano fatta di strada! Quando suonò la campanella della ricreazione, essi ci salutarono e si salutarono con simpatia: in quei tre giorni avevamo constatato che, nonostante tutte le difficoltà del momento attuale, è ancora possibile fare scuola con grande coinvolgimento e con scambievole piacere.
PRIMO POST SCRIPTUM: un ruolo non indifferente nel successo dell’iniziativa va riconosciuto al Buon Dio, che non ha fatto piovere!
SECONDO POST SCRIPTUM: dopo alcuni mesi ho provato la curiosità di vedere se si erano conservate tracce materiali del nostro percorso e sono entrata senza preavviso nelle due classi. Alcuni alunni non avevano con sé il blocco, altri nel frattempo lo avevano completato e quindi sostituito, ma parecchi furono svelti a mostrarmi le pagine realizzate insieme. Il disegno più bello risultò la trifora eseguita da Dejan, un ragazzo nato in Italia ma originario della Bosnia: con le mani e con i piedi l’interculturalità nasce spontanea.
Lucilla Calgaro