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I nostri primi 150

Pubblicato il: 01/03/2011 17:54:16 -


“È segno di maturità che un adulto sappia ripensare la sua giovinezza per meglio comprendere come e perché è giunto a quel punto e come e perché debba procedere oltre. È un atteggiamento che vale per il singolo come per i popoli”. Spunti di riflessione per un’analisi celebrativa dell’Unità d’Italia.
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Nel lontano 10 gennaio 1859, alla vigilia della Seconda guerra di indipendenza, Vittorio Emanuele II, Re del Regno sardo, nel Discorso della Corona pronunciò la celebre frase: “Nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tanta parte d’Italia si leva verso di noi. Forti per la concordia, fidenti nel nostro buon diritto, aspettiamo prudenti e decisi i decreti della Divina Provvidenza”. Com’è noto, fu un discorso forte sul quale gli stessi suoi ministri e perfino il Conte di Cavour non erano totalmente d’accordo e avrebbero suggerito una maggiore prudenza.

Il fatto è che la storia, vista con l’occhio del poi, sembra scorrere come un fiume nel suo alveo certo, ma, vista con l’occhio del prima, è un fiume che irrompe impetuoso e che, passo dopo passo, cerca e costruisce il suo alveo.

E ancora. Nel successivo Discorso della Corona del 2 aprile 1860 Vittorio Emanuele II ebbe a dire: “Fondata sullo Statuto l’unità politica, militare e finanziaria e la uniformità delle leggi civili e penali, la progressiva libertà amministrativa della Provincia e del Comune, rinnoverà nei popoli italiani quella splendida e vigorosa vita che in altre forme di civiltà e di assetto europeo era il portato delle autonomie dei Municipi, alle quali oggi ripugna la costituzione degli Stati forti ed il genio della Nazione. Nel dar mano agli ordinamenti nuovi, non cercando nei vecchi partiti che la memoria dei servigi resi alla causa comune, noi invitiamo a nobile gara tutte le sincere opinioni per conseguire il sommo fine del benessere del popolo e della grandezza della Patria. La quale non è più l’Italia dei Romani né quella del medio evo; non deve essere più il campo aperto alle competizioni straniere, ma deve essere bensì l’Italia degli Italiani”.

Sono citazioni severe, austere, determinate, che non riflettono, però, tutti i dubbi, le incertezze, le irrequietudini che animavano la corte e il governo sabaudo, presieduto in quegli anni da Cavour. Non si è giunti a quelle scelte, a quelle dichiarazioni ufficiali con un consenso unanime del gruppo dirigente e con il favore indiscriminato del popolo; in effetti il cammino è stato assai accidentato. Lo stesso Cavour era per soluzioni più prudenti che vedessero un forte Regno sabaudo nel Nord, dal Piemonte alla Dalmazia, a fronte di altri Regni nel Centro e nel Sud d’Italia: con grande disappunto del Papa e dei suoi sostenitori, tra cui gli stessi re delle Due Sicilie, Ferdinando II e Francesco II. I prudenti uomini di governo tessevano tele giorno dopo giorno e non si avventuravano tanto nel sogno di un’Italia unita allora e subito, che era più dei mazziniani, dei garibaldini, degli idealisti delle Giovine Italia e della Giovane Europa.

Era Mazzini che vedeva nella nazione il fondamento ideale, istituzionale e politico della sovranità popolare e dello Stato democratico. È noto quanto pensava: “Per nazione noi intendiamo l’universalità de’ cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti politici, all’intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l’attività di quelle forze”. Oggi una simile definizione non ci stupisce più di tanto, ma, pronunciata più di 150 anni fa, sollecitò quella forte coesione tra quei patrioti che, provenendo da tutte le parti d’Italia, combatterono e morirono alla difesa della Repubblica Romana e della sua Costituzione. E non è un caso che all’articolo 4 della Carta leggiamo: “La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni nazionalità, propugna l’Italiana”.

In questo conflitto ora latente ora palese tra uomini di governo e patrioti pronti a tutto, Vittorio Emanuele II ebbe il merito di saper coniugare le due istanze. In quegli anni sconfisse, anche se di misura, stando alla pace di Zurigo, per certi versi limitativa rispetto alle speranze della vigilia, sia le preoccupazioni politiche dei Francesi che quelle territoriali degli Austriaci, superando gli stessi consigli alla prudenza costantemente reiterati dai suoi ministri.

Così nell’arco di due anni, dal ‘59 al ‘61, il fiume della storia che ha condotto alla nostra unificazione nazionale ruppe tutte le barriere fino a quel fatidico 17 marzo del 1861.

Il rapido succedersi degli eventi è il seguente.

Il 27 gennaio 1861 in tutti i territori annessi hanno luogo le prime elezioni politiche per la formazione del primo Parlamento italiano. In effetti, dato che si votava per censo e che le donne erano escluse dal voto, gli aventi diritto erano circa solo il 2% della popolazione residente, e di questi solo la metà si recò alle urne, meno di 300.000 persone! Com’è noto, non votarono gli elettori di stretta osservanza cattolica, in forza della parola d’ordine ”né eletti né elettori” – in ordine a quel “non possumus” di Pio IX contro le “usurpazioni” piemontesi – preoccupati delle mire unificatrici del nuovo regno, che di lì a qualche anno avrebbero portato anche alla caduta dello stesso Stato pontificio.

Il Parlamento si riunisce a Torino il 18 febbraio 1861. Il 17 marzo viene approvata la legge che conferisce a Vittorio Emanuele II e ai suoi discendenti il titolo di Re d’Italia. Il 23 marzo è costituito il primo governo italiano e Cavour è il primo Presidente del Consiglio.

Il resto è storia nota. Il processo della unificazione del nuovo regno procede tra mille difficoltà, la rapida industrializzazione al Nord, l’occupazione pressoché militare del Sud, la repressione della resistenza opposta dai cosiddetti briganti a un corso politico che non considerava più la terra la fonte della ricchezza; ma anche con alcuni successi, una scuola elementare obbligatoria per i primi due anni – il tasso di analfabetismo oscillava intorno all’80% – la leva obbligatoria, l’avvio dell’unificazione linguistica, la presenza italiana sui tavoli internazionali. Una storia, quindi, difficile e complessa. Alcune culture regionali forse vengono conculcate, i dialetti combattuti. Ancora oggi ci si chiede se il prezzo che abbiamo pagato per l’unità nazionale non sia stato troppo alto! Ma che sarebbe successo dei piccoli staterelli della nostra penisola, se questa non avesse ricercato e costruito un’unità più ampia e reale a fronte degli Stati nazionali che ormai sul continente europeo esercitavano una indiscussa egemonia? È valsa la pena misurarsi con quelle egemonie nazionali? O avremmo dovuto restare dispersi in una miriade di piccoli Stati, una sorta di specie protetta e condannata a una dipendenza di fatto da altre ben più poderose nazionalità? Mèta forse di turisti curiosi più che di capitali produttivi! Va detto con forza che l’unità nazionale non avvilisce le autonomie, anzi le esalta perché, lungi dall’isolarle in una possibile e mortificante autoreferenzialità, permette loro di situarsi in un contesto più ampio in cui ciascuna di esse può commisurarsi e crescere.

A questo proposito ci sovviene e ci soccorre il discorso del nostro Presidente, Giorgio Napolitano, quando all’Accademia dei Lincei lo scorso 12 dicembre ebbe a dire tra l’altro: “Con l’avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi sommari e pregiudizi volgari su quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C’è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua; e sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c’è chi tratteggia il quadro dell’Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861”.

Napolitano avverte il peso e l’importanza che hanno oggi quei movimenti che all’interno dell’Unità ricercano spazi per valorizzare origini lontane che pur fortemente hanno contribuito a promuovere identità locali, particolari, pur sempre forti e interessanti. In un pianeta che oggi sta attraversando profondi cambiamenti, due sono in effetti le linee di tendenza: quella che porta a ricercarci tutti come cittadini del mondo, in un processo che gli economisti chiamano globalizzazione, indotto e prodotto dalle tecnologie della comunicazione, quelle fisiche, i trasporti, e quelle virtuali veicolate dal web, ben più potenti perché incidono direttamente sulle conoscenze, sui saperi, sulle abitudini, sui modi stessi di pensare e di sentire; e quella che porta, in un processo contrario, a ricercare il locale, il particolare, l’origine identitaria di ciascuno di noi. E forse, in questa polarità di processi, il globale e il locale possono essere visti come le due facce della stessa medaglia che più compiutamente alcuni definiscono glocalizzazione.

Se queste considerazioni sono vere, come è, non c’è alcuna contraddizione tra ricordare e celebrare l’unificazione nazionale e nel contempo ricercare e valorizzare tutti i tasselli che costituiscono questa unità e che forse una unificazione troppo accelerata ha portato a offuscare, se non addirittura in taluni casi a comprimere: la violenta liquidazione di quel movimento di lotta armata che venne bollato come brigantaggio, le bacchettate dei maestri quando un bambino di prima elementare, siciliano o veneto che fosse, persisteva nel linguaggio dei padri e resisteva alla lingua nazionale.

In taluni casi forse si è errato, si è forzata la mano: comunque, era anche necessario correre a costruire ferrovie, strade, ponti, scuole, caserme, ministeri, e tutte le infrastrutture di cui tutti gli Stati europei da decenni erano già largamente forniti. Va anche considerato che poi il regime fascista ha impresso al Paese quella fascistizzazione nazionalistica che grave nocumento ha arrecato a tutte quelle minoranze linguistiche e culturali di confine che dopo la grande guerra erano state annesse al Regno d’Italia. In tale ottica, è comprensibile che oggi la Provincia autonoma di Bolzano dichiari di non potersi associare alle celebrazioni unitarie rivendicando, appunto, una autonomia etnica, culturale e linguistica che ha origini molto lontane nel tempo: di fatto il Sud Tirolo è molto più antico dell’Alto Adige!

È anche vero, però, che nello stesso momento in cui celebriamo l’Unità, stiamo marciando verso il federalismo, o meglio verso un assetto politico nuovo in cui le Regioni possano ritrovare le loro origini, rivendicarle anche, pur in un contesto nazionale che non le umilia affatto, anzi le esalta.

Vale forse la pena riandare alla nostra stessa Costituzione. Nell’articolo 5 i nostri Padri costituenti nel 1947 scrissero testualmente: “La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. E nell’articolo 114 leggiamo: “La Repubblica si riparte in Regioni, Provincie e Comuni”. I Costituenti hanno prefigurato fin dagli anni Quaranta, nell’immediato dopoguerra, per un Paese sconfitto e umiliato da venti anni di dittatura, uno Stato fortemente unitario ma nel contempo aperto alle autonomie locali e regionali. E nel processo che oggi stiamo attraversando e costruendo, che prende nome di federalismo, ma che più correttamente potremmo definire di progressivo decentramento dei poteri dal centro alla periferia, dallo Stato alle Regioni, si procede proprio verso quella valorizzazione delle identità regionali che forse per tanti anni non sono state debitamente considerate.

E non è un caso che nella riscrittura che è stata fatta, in sede di revisione del Titolo V della Costituzione nel 2001, quell’articolo 114 è stato così riscritto: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Si sottolinea un netto passaggio da uno Stato che potremmo definire accentratore e verticale ad uno Stato, invece, orizzontale e fortemente decentrato sulle sue istituzioni periferiche. Si tratta di un deciso passo in avanti verso una più ampia democratizzazione e partecipazione delle istituzioni e dei singoli cittadini.

A questo proposito, ci soccorrono ancora le parole che il Presidente Napolitano ha pronunciato nel già citato discorso. Negli anni del secondo dopoguerra “non poteva comunque mancare, nei padri costituenti, la consapevolezza di come l’unità della nazione e dello Stato italiano fosse stata appena faticosamente messa al riparo da prove durissime che l’avevano come non mai minacciata. Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere seriamente recuperata”. Pertanto, la deriva di vecchi e nuovi luoghi comuni, afferma il Presidente, di umori negativi e calcoli di parte, non deve assolutamente sottovalutarsi.

Per tutte questa serie di ragioni, la data del 17 marzo 2011 non può costituire una semplice ricorrenza di routine, ma invece l’occasione perché nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle piazze, nelle famiglie, si rifletta sulla nostra storia, senza alcuna retorica, senza squilli di trombe, considerando invece le luci e le ombre del nostro recente passato. È un segno di maturità il fatto che un adulto sappia ripensare gli anni della sua giovinezza per meglio comprendere come e perché è giunto a quel punto e come e perché debba procedere oltre. Se un atteggiamento di questo tipo, critico e riflessivo, vale per il singolo, per la persona, vale anche per le persone che insieme vivono come cittadini della nostra Repubblica democratica fondata sul lavoro, dove appunto lavorano, pensano, progettano.

Perché l’essere umano è anche, o soprattutto, un animale sociale, e la vita e il destino del singolo non sono dissociati dalla vita e dal destino di noi tutti. Riflettere almeno per un giorno sul nostro passato significa conoscere meglio il presente e meglio proporsi per l’avvenire.

Maurizio Tiriticco

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