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Leopardi: un filosofo, un poeta, un “giovane favoloso”

Pubblicato il: 02/03/2015 10:15:52 -


Dallo studio di una giovane liceale una lettura attenta del “giovane favoloso”.
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“Senza dubbio è natura il termine che Leopardi usa più spesso per significare, da un punto di vista sensistico, l’essere in cui l’uomo è implicato e alle cui leggi ostili o indifferenti rimane sottoposto, ma dal cui senso vitale è estraniato”, dice Galimberti in uno dei suoi saggi, riuscendo sorprendentemente a compendiare la complessità del pensiero leopardiano, un pensiero che conosce “fasi diverse e anche contrastanti all’interno del suo svolgersi”. Sì, perché tutto, nella vita di questo grande uomo, sembra di fatto svolgersi entro “fasi diverse e contrastanti”. Un uomo che da giovane sognerà di evadere dalla prigione della sua Recanati e, finalmente abbandonatala, andrà di città in città alla ricerca di un luogo che lo appaghi, restando perpetuamente insoddisfatto dalle corte vedute degli uomini del suo tempo. Un giovane che vagheggerà l’amore e assisterà al distruggersi di quell’“inganno estremo” che lui aveva creduto eterno. Un ragazzo alla ricerca di un dialogo con i suoi genitori, una ricerca vana che incontrerà il limite di una madre, Adelaide, severa e arida di sentimenti da una parte, di Monaldo, intransigente tradizionalista dall’altra. Un uomo che tenderà inizialmente a nascondere le propria “diversità” per poi “urlare” fieramente al mondo intero l’unicità del suo pensiero, della sua mente geniale.
Un piccolo genio, Giacomo, sin da subito, sin dagli anni di quello “studio matto e disperatissimo” in cui, tra migliaia e migliaia di volumi raccolti nella biblioteca paterna, apprenderà da autodidatta ebraico, greco, latino, spagnolo, francese e tedesco. Un piccolo uomo, già grande dentro, pieno di cultura e catapultato prima del tempo nelle sofferenze della vita (anche a causa di malattie congenite e salute cagionevole) ma che, nonostante tutto, continuerà a essere pieno di aspettative e speranze per il futuro, e a nutrire le giornate spese nella casa paterna delle sue “care illusioni”.

“La ragione – dirà Leopardi in una delle pagine del suo “diario dell’anima”, lo Ziabaldone – è nemica d’ogni grandezza … un uomo tanto meno o tanto più difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione … pochi possono essere grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se non sono dominati dalle illusioni”. E così è: sono questi gli anni in cui Giacomo progetterà la fuga da Recanati, sognerà una vita felice. Tutto si rivelerà una mera illusione, la fuga sarà un fallimento, ma lui continuerà a poetare, continuerà a sognare. Giacomo è convinto d’essere lui, l’uomo Leopardi, la causa stessa dei suoi mali: è lui che, chiuso nei suoi studi, contravviene continuamente alle leggi di natura, madre benevola che vorrebbe che i suoi figli siano felici, elargendo alla giovinezza una serie di impulsi positivi verso la vita.
Ma verrà poi l’esperienza romana e Leopardi comprenderà come l’infelicità non riguardi solo lui, in quanto individuo, bensì l’intera età contemporanea: è quella che lui stesso definirà “doglia storica”. Riprendendo la contrapposizione rousseauiana natura-civiltà e lo storicismo di Vico, Leopardi imputerà alla civilizzazione la causa di tutti i mali dell’uomo moderno, un uomo che si è allontanato da quello stato di natura in cui l’individuo viveva in comunione e armonia con il mondo. “Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo”, aveva detto Foscolo nella famosa lettera del 15 Maggio (Le ultime lettere di Jacopo Ortis): gli antichi popolavano la loro vita di entità benevole, vivevano da poeti, trovavano miti consolatori ai mali dell’esistenza; i moderni hanno voluto squarciare quel “velo” pietoso che la natura aveva posto sull’“arido vero” donando all’uomo le illusioni, sì che ora l’uomo vive si più consapevole, ma irrimediabilmente infelice, perché senza illusioni la vita è – asserisce Leopardi – “la più misera e barbara cosa”. La ragione ha, in poche parole, distrutto il sogno: “La natura ha creato gli uomini felici, la ragione è il principio della loro miseria; la natura è il regno del bello, della poesia, delle care illusioni, degli eroici entusiasmi, la ragione è il regno del vero che inaridisce la poesia, mette a nudo la falsità dei sogni, tarpa le ali all’eroismo […] Abbastanza presto, però –osserverà Natalino Sapegno – (e precisamente durante la composizione delle Operette morali, nel ’24) Leopardi sottopone a ulteriore analisi il concetto rousseauiano di natura: la natura non è più madre benigna e premurosa della felicità delle sue creature; è invece la causa prima matrigna, che si identifica con la crudeltà del destino”.
Così, dirà Ficara, “contro le prime illusioni sentimentali (dopo la cosiddetta svolta pessimistica del ventitré) essa – la Natura – appare a Leopardi per quello che è, nella sua obbrobriosa e seducente e sempiterna malvagità”, e il dolore sarà percepito come un qualcosa che non riguarda più solo l’uomo Leopardi, non più solo l’età contemporanea, ma tutti gli uomini e tutti gli esseri viventi d’ogni tempo e luogo: “in qual forma, in qual stato che sia, dentro covile o cuna è funesto a chi nasce il dì natale”, dirà il poeta nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Dal pessimismo soggettivo o individuale si passerà, dunque, al pessimismo storico, per approdare infine a un ben più amaro pessimismo cosmico. Ma come perviene Leopardi a una così sconfortante conclusione?

Nucleo centrale della riflessione leopardiana è costituito da quella teoria del piacere già emersa dalle pagine dello Zibaldone (1820) e che il poeta porterà a estreme conseguenze. Leopardi constaterà come ciascun uomo spenda l’intera sua vita alla ricerca della felicità e, da buon materialista e sensista, riporterà il concetto eccessivamente astratto di felicità al concreto: la felicità deve essere percepita fisicamente, avvertita concretamente, e per questo va a identificarsi con Il Piacere. L’uomo vorrebbe godere di un piacere infinito, una felicità illimitata per estensione e durata, ma un piacere infinito e illimitato non esiste: il piacere che l’uomo potrà raggiungere sarà sempre finito e momentaneo e l’uomo sarà perpetuamente infelice. Chi ha posto nell’uomo questa aspirazione? Chi ha predisposto questo stato di cose? Spiace dirlo, ma proprio quella Natura che prima era apparsa agli occhi del poeta così benevola e premurosa nei confronti dei suoi figli.
La Natura si tramuterà così in quel “brutto poter che ascoso a comun danno impera” (A se stesso). Essa “de’ mortali madre è di parto e di voler matrigna” (La Ginestra): “tu sei nemica scoperta dei mortali, e degli altri animali, e di tutte le opere tue – le imputa con veemenza il poeta nel celebre Dialogo della natura e di un Islandese – […] ora c’insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti”. La natura come per i materialisti settecenteschi –osserverà Ficara- anche per Leopardi è materia incorruttibile o eternità della materia […]; è caso […]; è <come un fanciullo> che <con grandissima cura> si affatica <a produrre e a condurre il prodotto alla sua perfezione; ma non appena ve l’ha condotto […] pensa e comincia a distruggerlo> […]; è male assoluto e universale”. Una natura che verrà rappresentata come un’entità malvagia, quasi divinizzata, che ha predisposto sofferenza e infelicità per l’uomo, godendo nel vederlo illudersi e disilludersi costantemente, e che nel Dialogo della Natura comparirà in figura di donna “di volto mezzo tra bello e terribile”, “una sorta di sfinge – ben osserverà Galimberti – […], presenza terribile ma anche incantevole, simile a un’apparizione numinosa”; una natura che al contempo verrà descritta come arido meccanismo privo d’anima o intenzionalità, che ad altro non mira se non alla sua conservazione, una “forza operosa che affatica le cose di moto in moto”, come aveva detto Foscolo, “un perpetuo ciclo di produzione e distruzione”, osserverà Leopardi nel Dialogo della Natura.
Ma Leopardi è un poeta. Così le conclusioni della sua ragione non lo soddisferanno e non cesserà mai di interrogarsi, di cercare, risposte ai grandi interrogativi che lo affliggono: “a chi piace o giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?”, domanderà al termine del Dialogo l’Islandese alla Natura. A chi giovi resterà un mistero, ma certo è che non giova all’uomo.
Come rendere, dunque, l’esistenza umana meno traumatica e dolorosa? Sarà proprio la fraterna amicizia con Ranieri, l’affetto disinteressato mostratogli dalla sorella di Antonio, Paolina (peraltro, scherzi del caso, anche la sorella di Giacomo si chiamava Paolina, e a lei Leopardi sarà sempre molto legato) che permetteranno al poeta di non scadere in una visione nichilistica, bensì di approdare a un generoso disegno utopistico di una società basata sulla solidarietà tra gli uomini, perché la solidarietà sola, il calore di una sincera amicizia, possono contribuire a rendere più felice un’esistenza, quale quella umana, di per se infelicissima.

È questo l’approdo estremo di un Leopardi ormai maturo, l’approdo alla “social catena”. L’uomo deve prendere coscienza del suo destino e del suo essere miserrimo e infelice, deve cessare di “pargoleggiar”, di aggrapparsi a miti consolatori quali la religione o la fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive dell’umanità”. Quando l’uomo aprirà gli occhi sul “male di vivere”, come lo definirà Montale, allora scoprirà che la Natura è comune nemica, comprenderà quanto sciocco sia farsi guerra tra infelici: “quell’orror che primo contra l’empia natura strinse i mortali in social catena” condurrà allora gli uomini a una solidarietà reciproca dando vita a un “più onesto e retto conversar cittadino”, portando “giustizia e pietade”, il “vero amore”, un amore inteso non di certo come carità cristiana (Leopardi rifiuta infatti l’esistenza di Dio, a tal punto che dirà: “Niente preesiste alle cose […] tutto è posteriore all’esistenza”) bensì come filantropia classica, un amore secondo ragione. La ragione, dunque, prima tanto disprezzata per la sua oggettiva aridità, diverrà unica ancora di salvezza per l’umanità: “Leopardi – osserverà Guglielmeni – scopre […] un ruolo attivo della ragione. E con la ragione si rivaluta quindi la società”. Dirà Luporini: “In questo ultimo periodo che fu stroncato dalla morte pressoché al suo inizio, vi è qualcosa di nuovo, di cui si sono generalmente accorti tutti gli studiosi. Questo qualcosa di nuovo è lo sviluppo del valore positivo dell’operare umano, dell’energia umana, nell’elemento socialmente costruttivo dell’universale solidarietà degli uomini contro l’ostilità o l’indifferenza della natura … il <comun fato>, di fronte a cui gli uomini, con fetido orgoglio finalistico e teologico, non devono illudersi, ma contro cui debbono combattere, uniti, una <guerra comune>”. Aspettate un attimo: ma quindi, bisogna illudersi, come facevano gli antichi, o disilludersi e unirsi in “social catena”? La Natura è benigna o matrigna? La ragione è fonte dei mali per l’uomo o permette all’uomo di aprire gli occhi sull’“arido vero” spingendolo a armarsi e combattere per migliorare la sua condizione?
Non vi sono tesi univoche nella filosofia leopardiana, per il semplice fatto che il pensiero di Leopardi muta se si evolve con Leopardi stesso e sarà sempre profondamente legato alla biografia dell’autore, sebbene egli rivendicherà continuamente l’autonomia delle sue idee dalla sua esperienza personale. Così buona parte della critica idealista –primo tra tutti Croce – parlerà di “ingorgo sentimentale” non riconoscendo al pensiero leopardiano dignità filosofica, ritenendolo frutto di dati emotivi e sentimenti estemporanei.

Certo è che la filosofia leopardiana manca di organicità e sistematicità, certo è che è influenzata dal dolore e dalla sofferenza vissuti dall’autore, ma sono proprio dolore e sofferenza che, anziché condizionare negativamente il suo pensiero, come vorrebbero gli idealisti, faranno si che, come sottolineerà la più recente critica marxista, Leopardi si interroghi precocemente, acutamente e profondamente sui problemi esistenziali della vita, su chi siamo, da dove veniamo, perché viviamo ma, prima di tutto, perché soffriamo. Per Leopardi il vero poeta non può fare a meno d’essere un po’ filosofo, e un vero filosofo, per essere tale, deve essere un po’ poeta: il suo si potrebbe definire, dunque “pensiero poetante”, o anche “poesia filosofeggiante”. Pur se non sarà stato un grande filosofo, inteso nel significato rigoroso del termine, Leopardi è e rimane, come reca per titolo il recente film di Mario Martone, “Il giovane favoloso”…

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Immagine in testata di di Patria letteratura

Lidia Maria Giannini

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