Il futuro del mondo? In mano all’homo empaticus
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“La Terza Rivoluzione Industriale non è una panacea che possa curare istantaneamente tutti i mali della società, o un’utopia che ci possa condurre a una terra promessa. È, invece, un piano economico, pragmatico e senza orpelli che potrebbe farci accedere a un’era postcarbonio”. Presentazione del saggio di J. Rifkin, “La Terza Rivoluzione Industriale, come il “potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia, il mondo” (Mondadori, Milano, 2011).
Jeremy Rifkin, fondatore e presidente della “Foundation On Economic Trends” di Washington, è noto a livello mondiale, e anche al nostro pubblico, per una serie di ricerche che conduce, da anni, sui nessi che corrono tra la politica, l’economia, lo sviluppo scientifico e tecnologico e le condizioni di vita, la cultura, i concreti comportamenti delle popolazioni del pianeta. Si tratta di ricerche a tutto campo, per certi versi ardite e suggestive, per altri moderatamente ottimistiche, che meritano comunque la dovuta attenzione.
Ricordiamo, tra i suoi ultimi scritti, “Il sogno europeo, come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”, del 2004, e “La civiltà dell’empatia, la corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi”, del 2010, ambedue editi da Mondadori. Titoli già suggestivi e significativi per la proiezione verso un futuro che potremmo costruire insieme, purché si sia in grado di sconfiggere le mille “lobbies” di poteri forti, così prepotentemente attive proprio in questo periodo storico!
Le ricerche di Rifkin sono tutte di prima mano e sempre esaurientemente documentate; il loro livello di attendibilità è, quindi, molto alto, anche se – almeno a mio vedere – “le magnifiche sorti e progressive” sembrano essere, per l’autore, la chiave di lettura fondante del nostro futuro, il quale, com’è noto, non è mai un’autostrada senza svincoli e, soprattutto senza vincoli!
Ma in che cosa consiste questa “Terza rivoluzione industriale” che l’autore cita sempre? In primo luogo, l’aggettivo “industriale” deve essere letto con un altro significato rispetto al consueto: industria in senso lato, non necessariamente legata alla macchina. Rifkin riconosce che l’industria, in genere, interessa solo gli ingegneri e i sindacalisti. In effetti, “il termine industria evoca visioni di lavoratori alienati lungo la catena di montaggio, intenti ad assemblare piccole componenti di un prodotto che si avvicina loro lungo un nastro trasportatore. Non ci eravamo lasciati alle spalle tutto questo quando abbiamo cominciato a connetterci a Internet e abbiamo reso pubblico il nostro profilo su Facebook? Sì e no. La Terza rivoluzione industriale è, insieme, l’ultima fase della grande saga industriale e la prima di una convergente era collaborativa. Rappresenta l’interregno tra due periodi della storia economica: il primo caratterizzato dal comportamento industrioso e il secondo dal comportamento collaborativo. Se l’era industriale poneva l’accento sui valori della disciplina e del duro lavoro, sul flusso dell’autorità dall’alto al basso, sull’importanza del capitale finanziario, sul funzionamento dei mercati e sui rapporti di proprietà privata, l’era collaborativa è orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali” (p. 294).
Anche se di fatto stiamo attraversando, anche a livello planetario, un periodo storico per nulla incoraggiante, Rifkin ravvisa, invece, che “siamo nel bel mezzo di una profonda trasformazione del modo in cui la società è strutturata: un passaggio dal potere gerarchico al potere laterale.
Come ogni altra infrastruttura energetica e di comunicazione nella storia, la Terza rivoluzione industriale deve fondarsi su pilastri eretti simultaneamente: in caso contrario, le fondamenta non reggono. Questo perché ogni pilastro può funzionare solo in relazione con tutti gli altri. I cinque pilastri della Terza rivoluzione industriale sono: 1) il passaggio alle fonti di energia rinnovabile; 2) la trasformazione del patrimonio immobiliare esistente in tutti i continenti in impianti di micro generazione per raccogliere in loco le energie rinnovabili; 3) l’applicazione dell’idrogeno e di altre tecnologie di immagazzinamento dell’energia in ogni edificio in tutta l’infrastruttura, per conservare l’energia intermittente; 4) l’utilizzo delle tecnologie Internet per trasformare la rete elettrica di ogni continente in una inter-rete per la condivisione dell’energia che funzioni proprio come internet; 5) la transizione della flotta dei veicoli da trasporto passeggeri e merci, pubblici e privati, in veicoli “plug-in” e con cella a combustibile che possano acquistare e vendere energia attraverso la rete elettrica continentale interattiva” (p. 46).
Sotto questo profilo, nulla sembrerebbe eccepire. È sotto gli occhi di tutti che le risorse della seconda rivoluzione industriale, il petrolio in primo luogo, si vanno esaurendo, che l’energia atomica è sotto processo, che il gas serra rischia di soffocarci tutti. Pertanto, sostiene Rifkin, dall’era del carbonio occorre passare all’era dell’idrogeno e affidarsi all’uso generalizzato delle energie rinnovabili, “come il fotovoltaico, l’eolico, l’idroelettrico e il geotermico” (p. 60).
In effetti, l’Unione europea si è già mossa in questa direzione. Giova ricordare che, nella Strategia Europa 2020, il terzo dei cinque obiettivi perseguiti riguarda le seguenti voci: ridurre le emissioni di gas a effetto serra almeno del 20% rispetto ai livelli del 1990, o del 30% se sussistono le necessarie condizioni; portare al 20% la quota delle fonti di energia rinnovabile nel nostro consumo finale di energia; migliorare del 20% l’efficienza energetica. Il 2020 è ancora lontano e tutto sarà possibile purché si superino le difficoltà che in questo inizio del 2012 sono sotto gli occhi di tutti.
La rivoluzione auspicata da Rifkin prevede alcuni passaggi, che non sono affatto di poco conto, e che richiedono un impegno considerevole sia dei governi sia dei governati: le relazioni internazionali dovrebbero passare dalla geopolitica alla “politica della biosfera”, termine con cui l’autore indica il pianeta che dai fondi oceanici alla stratosfera costituisce un unico organismo vivente. Per Rifkin, la stessa visione darwinistica sociale della natura come campo di battaglia, dove ogni creatura lotta contro tutte le altre per la sopravvivenza, dovrebbe cedere il passo a un’altra visione, che “considera l’evoluzione della vita e quella della geochimica del pianeta come processi co-creativi, in cui tutto si adatta a tutto il resto, garantendo la continuazione della vita nella biosfera terrestre” (p. 217).
E dal benessere del nostro sistema globale dipende la nostra stessa sopravvivenza, anzi una forma diversa e superiore di esistenza. Pertanto, occorre passare da una crescita economica senza limiti alla concezione di uno sviluppo economico sostenibile; dar vita a un mondo non più verticale, dove c’è chi opprime e chi è oppresso, ma orizzontale, “laterale” – così lo definisce Rifkin – in cui sono dominanti i principi della solidarietà e della cooperazione.
Questa crisi planetaria del 2012 potrebbe e dovrebbe essere superata e “la Terza rivoluzione industriale continuerà a evolversi nei prossimi decenni e, probabilmente, raggiungerà il picco intorno al 2050, per arrivare allo stadio di maturità nella seconda metà del secolo” (p 294).
Rifkin dedica anche una particolare attenzione alla scuola (pp. 262-293). I decisori politici e gli insegnanti dovrebbero chiedersi quali cambiamenti sollecitare per preparare le future generazioni alla nuova era che si sta dischiudendo. La nostra emergente coscienza biosferica ci permette di capire che siamo tutti predisposti all’empatia: che “non siamo razionali, distaccati, acquisitivi, aggressivi e narcisisti – come ritenevano molti filosofi illuministi – bensì affettuosi, sociali, operativi e interdipendenti. L’Homo sapiens sta cedendo il passo all’Homo empaticus” (p. 269). “La vecchia scienza considera la natura come una somma di oggetti; la nuova come una somma di relazioni” (p. 257).
Sotto questa luce, “l’approccio dominante all’insegnamento, dall’alto verso il basso, il cui obiettivo è quello di formare un essere competitivo e autonomo, sta cominciando a cedere il passo a un’esperienza educativa distribuita e collaborativa… In questa nuova ottica l’intelligenza non è qualcosa che si eredita o una risorsa che si accumula ma, al contrario, un’esperienza condivisa distribuita tra le persone” (p. 276).
In effetti, non sono riflessioni del tutto nuove: basti pensare al concetto piagetiano dell’intelligenza come un risultato continuo delle interazioni che si producono laddove le facoltà innate del bambino si commisurano con il sociale che lo circonda e lo sollecita; o della intelligenza come un prodotto sociale, marcatamente vigotskiana. E lo stesso concetto di lateralità, o meglio di “pensiero laterale”, ci riconduce alla ricerca di Edward De Bono, laddove con questa espressione si intende l’apporto che alla logica sequenziale viene data dalla reticolarità, se non dalla globalità dei nostri processi mentali: quando l’intuizione creativa, laterale, appunto, e non lineare, sovviene ad arricchire e a implementare le nostre quotidiane ricerche e la soluzione di situazioni problematiche. È solo il pensiero laterale, secondo De Bono, che consente l’approccio a una situazione problematica, in quanto si adottano punti di vista alternativi, che in genere una procedura strettamente logica non prevede e non consente. Mentre una soluzione diretta prevede il ricorso alla “logica sequenziale”, tentando la risoluzione del problema partendo dalle considerazioni che sembrano più ovvie, il pensiero laterale se ne discosta (da cui il termine “laterale”) e cerca punti di vista alternativi prima di tentare la soluzione. Insomma, dal lineare al complesso o, se si vuole, mutuandolo dalla linguistica e dalla teoria dell’informazione e dell’inform(azione auto)matica, dal “testo all’ipertesto”!
L’analisi condotta da Rifkin – del resto già anticipata e proposta dalle sue numerose pubblicazioni – per certi versi è ineccepibile, per altri sembra sempre venata da un eccesso di illuministico ottimismo. Comunque, ciò che scrive – e sempre con un corredo indiscutibile di documenti – sui mali del mondo contemporaneo e sulle responsabilità che governi, centri di potere e lobbies internazionali hanno in proposito è sempre corretto e rigoroso, anche per le informazioni fresche e attuali che lo corredano.
Indubbiamente, sono e siamo in molti a pensarla come lui: tuttavia, sembra che la prima difficoltà sia quella di passare dalla denuncia, alla protesta e alla creazione di un movimento politico di grande ampiezza, capace di travalicare i confini delle nazioni. A tutt’oggi possiamo registrare più sommovimenti e proteste che una convinta consapevolezza di ciò che potrebbe accadere se non prendiamo nelle nostre mani, e al più presto, il nostro destino! Di profeti disarmati la storia ne ha conosciuti tanti! Speriamo che Rifkin non venga domani ricordato tra questi, mentre la nave terra affonda…
Maurizio Tiriticco