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La didattica: una relazione necessaria tra teoria e pratica

Pubblicato il: 21/11/2013 14:58:08 -


“Mi dispiace signore, credo di non aver nulla di ciò che lei cerca. Lei vuole qualcosa che sia adatto a far lavorare i ragazzi, mentre tutto ciò che abbiamo è pensato per farli ascoltare”, questa, la risposta di un commesso a J. Dewey, che cercava elementi di arredo adatti alla sua scuola. Gli autori del volume “Didattica e conoscenza” affrontano il problema del complesso rapporto insegnamento-apprendimento collocandolo in una corretta dimensione scientifica; in un momento in cui spesso si discute di didattica – e talora si interviene – in un’ottica da bar dello sport, dove chiunque, per il solo fatto di aver imparato a leggere e a scrivere, si sente in grado di dire la sua.
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“Didattica e conoscenza” (a cura di P. Lucisano, A. Salerni, P. Sposetti, Carocci, Roma, 2013) la scelta di disporre in questo modo le due parole che compongono il titolo, ripreso poi come “riflessioni e proposte sull’apprendere e l’insegnare”, costringe immediatamente il lettore a misurarsi con la scelta operata dagli autori: la mediazione didattica è strumento essenziale di produzione di conoscenza in chi apprende.
La semplice inversione dei due termini, “conoscenza e didattica”, modificherebbe infatti, e molto, il senso del lavoro, perché porterebbe l’attenzione sui contenuti della conoscenza, come prodotti da trasmettere, piuttosto che sulla responsabilità di provocare l’azione dell’apprendere, produrre conoscenza come risultato di un’esperienza consapevole in chi, bambino, adolescente o adulto che impara.

Costruire esperienze educative è il tema che è affrontato in modo esplicito nei primi due capitoli più teorici dagli autori P. Lucisano e A. Salerni e che ritorna nei contributi successivi (V. Marzi e P. Sposetti), i quali contestualizzano ambienti, modelli e strumenti della comunicazione didattica, collocandola nelle condizioni reali della scuola. Così viene posta in modo chiaro ed evidente la necessità di interpretare la realtà concreta in cui, nell’istituzione formativa, si fronteggiano realtà sociali di diverso peso, che condizionano la costruzione dell’esperienza di chi apprende, e la/le abilità di chi agisce come mediatore, capace di liberare curiosità, potenzialità e bisogni di conoscere.
Il testo, di dimensioni abbastanza contenute, se misurato in relazione alla quantità di utili rifermenti e approfondimenti proposti, è nello stesso tempo un po’ meno e un po’ più di un agile manuale d’introduzione al mestiere di chi lavora sui temi della “costruzione” di esperienze consapevoli di conoscenza. Da un lato, infatti, i vari contributi sono molto precisi nel presentare lo stato dell’arte delle “scienze pedagogiche” (mi si passi l’espressione), negli aspetti vivi e significativi rispetto alla situazione attuale, e nello stesso tempo, dall’altro, propongono strategie didattiche e modelli di lavoro (ancora A. Salerni), finalizzati a produrre interventi efficaci.
Il lettore è così accompagnato in una riflessione su modalità di lavoro tradizionali e innovative e sugli strumenti concreti atti a definire ambienti centrati sul soggetto che apprende.
Il racconto di J. Dewey che si aggira nel negozio di arredamento scolastico e che viene liquidato dal commesso con un “mi dispiace signore, credo di non aver nulla di ciò che lei cerca. Lei vuole qualcosa che sia adatto a far lavorare i ragazzi, mentre tutto ciò che abbiamo è pensato per farli ascoltare”, appare una metafora ancora, purtroppo, valida sul funzionamento della nostra scuola.

Come si può operare in concreto per cambiare qualcosa in modo non episodico?
A questa domanda, ormai da anni si risponde con molti e diversi progetti.
Ma il problema sta proprio qui, si può costruire un progetto, una serie di progetti utili, in modo non episodico ed estemporaneo, se non si possiedono solidi riferimenti teorici e se non si sperimentano precise opzioni, che orientino la scelta di strumenti, di strategie e di modalità di valutazione?
Per questa ragione, si può dire che il testo è “più” di un manuale; in nessuna parte infatti si esplicita una critica ai progettifici (scorciatoie spesso inutili per rispondere a questioni che meriterebbero ben altri interventi), ma si fornisce tutta l’attrezzatura necessaria per distinguere un progetto meritevole da interventi, spesso anche lodevoli, ma scarsamente significativi.
Molto opportuna appare la parte dedicata alla importanza della documentazione di quanto si fa nel lavoro didattico e quella che fornisce indicazioni per valutazioni continue in itinere e finali. Infine, nella parte conclusiva dei due saggi (M. De Luca e P. Marabotto) viene posto il problema di preservare, dai rischi di estemporaneità e di episodicità, le attività di apprendimento, che avvengono in contesti non usuali, e che descrivono due situazioni di “trasposizione didattica” nel contesto del museo e di un laboratorio, in cui si esplora l’arte con le mani per “un uso giocoso dei sensi” e finalizzato a produrre conoscenza.

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Immagine in testata di Wikipedia (licenza free to share)

Vittoria Gallina

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