Alla ricerca di nuovi messaggi nella Commedia di Dante
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Maurizio Tiriticco ha letto “Il libro segreto di Dante”, di Francesco Fioretti, Newton Compton 2011. Ecco la recensione per Education 2.0.
Ho acquistato “Il Libro segreto di Dante”, che mi ha solleticato almeno per tre motivi:
a) ho sempre saputo che Dante era anche un mago, iscritto all’arte dei medici e degli speziali, e che la sapeva più lunga di quanto ne possano sapere i critici del nostro tempo, tutti postromantici, tutti di un ambiente positivista o storicista, quindi tutti con un approccio culturale che ignora in partenza le implicazioni esoteriche di cui Dante, invece, era un attento e fine conoscitore;
b) il fatto che Francesco Fioretti abbia voluto avventurarsi in una indagine totalmente nuova rispetto a tutta la critica dantesca, sempre severa e sapiente, forse anche troppo (De Sanctis, Michele Barbi, Pietrobono, Sapegno, Bosco, Petrocchi, Adorno), per avventurarsi su di un terreno che è riuscito a far suo. Fioretti è un dantista serio e la copertina, che fa un po’ l’occhiolino ai testi di Dan Brown, in effetti non gli rende un buon servizio; d’altra parte tutto il libro non può annoverarsi tra i “sacri” testi di una critica letteraria tout court;
c) il fatto che, ad apertura di libro, mi sono apparsi i quadrati magici, i pentacoli, e l’accenno a quelle pergamene che Dante aveva lasciate nel suo studio e che i discendenti diretti non sembra abbiano apprezzato un gran che! Almeno secondo quanto i ricercatori, i critici e gli storici (non esoterici) ci hanno tramandato.
La mia curiosità e la mia attesa sono state ben ripagate, anche perché negli anni dell’università mi interessai a fondo dell’esoterismo e delle sue pratiche (Alice Bailey e la sua Arcan School, lo yogi Ramacharaka, gli scritti di William Walker Atkinson et al.), partendo dal presupposto che nella nostra cultura occidentale, dal p greco ai nostri giorni, abbiamo sviluppato più l’emisfero sinistro del nostro cervello, che presiede ai processi logico-razionali, lasciando, invece, che altre culture, quelle orientali, che non avrebbero mai conosciuto un Rinascimento o un Illuminismo, seguissero altre strade, esplorando e utilizzando a fondo le possibilità dell’emisfero destro, quello delle operazioni emotivo/affettive, delle intuizioni olistiche. E proprio quegli interessi giovanili mi hanno sempre indotto a pensare che Dante ne sapesse molto più di quanto i critici abbiano in seguito scoperto… o pensato di scoprire. Un Dante in grado di coniugare perfettamente la logica aristotelica con le visioni di un Gioachino da Fiore, “di spirito profetico dotato” (Par. XII), lui che aveva frequentato indifferentemente la scuola francescana di Santa Croce e quella domenicana di Santa Maria Novella.
È per queste ragioni che il Veltro (Inf. I), il “Cinquecento dieci e cinque” (Purg. XXXIII), l’occhio dell’aquila (Par. XVIII, XIX, XX), la stessa visione di Dio, “dell’alto lume parvemi tre giri di tre colori e d’una continenza” (Par. XXXIII), ma anche certe argomentazioni di Beatrice sulla macchie lunari (Par. II) o la preghiera alla vergine (Par. XXXIII) mi hanno sempre convinto che Dante la sapesse molto più lunga dei suoi critici e che il non detto sia spesso più ricco dello scritto. Già lo stesso Boccaccio, altra testa, altra cultura, altra visione del mondo, non ha capito molto del Dante esoterico e, di fatto, ha dato il là a una impostazione critica che – dopo i silenzi del Rinascimento, del Sei e del Settecento (in quei secoli Dante non era affatto considerato un poeta, ma un oscuro verseggiatore! Fa rara eccezione la “Difesa di Dante” di Gaspare Gozzi) – si è mossa leggendo i versi “in superficie”, non pensando neanche lontanamente che, invece, al di sotto c’erano altre verità: quelle verità nascoste, oltre all’allegorico e all’anagogico, che Dante voleva effettivamente dire alla sua gente, quella dotta che avrebbe saputo ritrovare le verità celate, e il contadiname che mandava a memoria Paolo e Francesca o il Conte Ugolino! Allora, la “Comedìa” usata anche come strumento di lotta, solo, però, per chi l’avrebbe saputa “leggere”! Il fatto è che Dante parla e scrive a un mondo che, a Trecento inoltrato, andava ormai scomparendo! E infatti lo stesso Boccaccio “non lo capisce” per quanto riguarda i messaggi trasversali che lancia!
Se lo scenario consolidato è questo, Fioretti tenta una lettura diversa e… avventurosa, per certi versi: in effetti, è per questo che sceglie la strada del romanzo, perché la strada della critica “ufficiale” richiederebbe approcci – da parte sua e da parte dei suoi stessi lettori e critici – assolutamente diversi. Sotto il profilo della critica ufficiale, l’approccio di Fioretti richiederebbe argomentazioni diverse, dimostrazioni inconfutabili, tutte cose che è difficile condurre quando si ha a che fare con un linguaggio che definire criptico è già povera cosa. Per queste ragioni, Fioretti si salva in corner, per cui chi può apprezzare il libro è solo un adepto iniziato come lui. La cosa più interessante del libro è la lettura che lui fa della Commedia – o di parti di essa – secondo chiavi esoteriche che Dante ha abilmente utilizzato per dire altre cose oltre a quelle già evidenti. I Templari e l’arca santa rientrano nel poema secondo chiavi di lettura che lo stesso Dante ha abilmente nascoste per i più, ma non per gli iniziati o per lo stesso Fioretti che iniziato non è, ma che la via dell’iniziazione si accinge a percorrere.
Insomma, Dante ha inserito nel suo poema un altro poema, in novenari, rintracciabile attraverso una chiave interpretativa nascosta in una delle pergamene scoperte dai suoi figli. E Giovanni il figliastro (?) e Bernard il templare procedono a scartare, pergamena per pergamena, con l’esortazione vigile e critica di Antonia, Suor Beatrice, il linguaggio segreto dei numeri che rinviano a certi versi del poema che danno luogo ad altre informazioni nascoste in una lingua che non è il fiorentino di Dante né il volgare illustre né il latino. Quale sia il significato di queste composizioni nascoste è difficile sapere – di qui la prudenza di Fioretti, che non ci propone un saggio compiuto sulla poesia nascosta di Dante, ma un romanzo che ciascuno può leggere come vuole. Anche perché le vicende dei protagonisti, agite in scenari fedelmente e sapientemente ricostruiti da Fioretti, assumono una loro valenza che permette l’opportuno distanziamento dai tentativi di spiegazione del libro segreto che Dante ha voluto lasciarci e nel contempo nasconderci.
I perché emergono pagina dopo pagina e lo stesso autore sembra anche compiacersi nei tentativi non sempre riusciti di dare spiegazione di tutto. Quel che è certo è che la Commedia può dirci ancora altre cose, oltre a ciò che già è noto, e che può anche rispondere ai tanti interrogativi che la stessa critica ufficiale spesso ha posto. Insomma, Fioretti getta con molta cautela, lui ricercatore doc che ha assunto la veste del romanziere – perché in un romanzo tutto è giustificato – una lenza in un mare ancora tutto da scoprire, e sembra attendere come i pesci abbocchino, e se abbocchino, o meglio come la critica risponda! Non credo che quella ufficiale si esprimerà calorosamente! Quel che è certo è che l’avventura in cui Fioretti si è gettato non può finire con “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Ha tratto il dado e ora deve andare avanti, anche perché penso che il materiale per un secondo romanzo, meno criptico, è già sulla sua scrivania!
Maurizio Tiriticco