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A proposito di FIAT e scuola

Pubblicato il: 24/03/2011 13:59:00 -


L’organizzazione del lavoro dalla fabbrica alla scuola. Per Franco De Anna bisogna “aprire con coraggio una stagione storica nella quale le risorse culturali, le rappresentanze sindacali, l’auto organizzazione professionale, riconnettano interessi, aspettative, speranze, ritrovando un ‘senso comune’ del valore dell’istruzione, capace di consolidarsi in una ipotesi di portata storica”.
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Ho scritto altrove tentando un nesso tra la vicenda FIAT e questioni relative alla scuola, all’istruzione ed alla formazione. Gli articoli di Missaglia e di Roscani con contributi originali e più che condivisibili sviluppano considerazioni ulteriori sulle quali vorrei aggiungere altre due note.

1) ALLA FIAT

Innanzi tutto sul “modello” FIAT che è stato “proposto” (!?) alla decisione dei lavoratori. Ne è stata proposta una lettura che lo connetterebbe al toyotismo, sulla base di considerazioni che riguardano l’evoluzione del macchinismo, degli “strumenti” di lavoro e della organizzazione del lavoro capace di superare, sia per l’evoluzione della lavorazione stessa, sia della sua organizzazione, la filosofia e l’impianto concreto della “catena di montaggio” tipica della seconda rivoluzione industriale (il taylorismo). Ricordo solamente che il modello Toyota si configurò attorno all’esigenza di superare i limiti intrinseci del modello ispirato (variamente: le applicazioni reali sono state numerose lungo la seconda rivoluzione industriale) alla filosofia taylorista.

In sintesi estrema: in primo luogo i vincoli di una elevatissima standardizzazione del prodotto; in secondo luogo la “rigidità” di quel modello che implicava costi elevati in termini di scarti e di controllo di qualità del prodotto.

Per esemplificare/semplificare. Sul primo fronte: si prendeva atto del tramonto del modello fordista, in sé efficacemente riassumibile in una famosa battuta di Ford “voglio dare una automobile a ciascun americano, e del colore che desidera… purché sia nero”. Prodotti di massa, per un consumo di massa e completamente standardizzati. Non più proponibili dalla metà degli anni ’70 in poi, a una collettività di consumatori che, esauriti i bisogni primari, inseguivano un consumo capace di alimentarsi da se stesso e all’insegna della diversificazione e personalizzazione.

Sul secondo fronte: un errore di lavorazione, nel modello taylorista, proiettava i propri negativi effetti sull’intera catena, che avrebbe dovuto essere fermata complessivamente per correggere; allo stesso modo un cambiamento del prodotto implicava una ristrutturazione completa del processo, con costi elevatissimi.

Sul secondo fronte: un errore di lavorazione, nel modello taylorista, proiettava i propri negativi effetti sull’intera catena, che avrebbe dovuto essere fermata complessivamente per correggere; allo stesso modo un cambiamento del prodotto implicava una ristrutturazione completa del processo, con costi elevatissimi.

Da queste due considerazioni fondamentali venne, alla Toyota, la riduzione dimensionale delle isole di montaggio, la possibilità di un controllo di qualità a costi inferiori, la diversificazione e personalizzazione del prodotto con variazioni just in time rese possibili anche dal collegamento diretto tra mercato, orientamenti della domanda, e produzione.

Le isole a dimensioni ridotte, con mansioni ricomposte (e tecnologia conseguente) consentivano le correzioni dei difetti o degli errori, senza fermare l’intera produzione, a una condizione: la partecipazione e responsabilizzazione dei lavoratori stessi, e anche “l’ascolto” di questi ultimi circa i miglioramenti possibili a partire da suggerimenti, soluzioni che provenissero dalla loro esperienza e/o professionalità.

Per anni si parlò del “modello Toyota” come esemplare di una riorganizzazione del lavoro che superava sia la rigidità della catena tradizionale, sia l’espropriazione assoluta del lavoro sussunto interamente nel “macchinismo” della produzione (nel capitale). Si ricordi la rappresentazione che ne diede Chaplin in “Tempi moderni”.

Per verificare la comparazione degli “accordi” (!?) FIAT a questo modello mi limito a rinviare il lettore alla loro analisi, compresi i corposi “allegati” agli stessi (dei quali pochissimo si è parlato nel dibattito politico mediatico che ha accompagnato il “referendum” sugli accordi e che vengono rammentati nei contributi di Missaglia e Roscani). Ma anche alle scelte produttive (prodotti e mercati) che Marchionne ha indicato (!?) in termini di sviluppo futuro.

In particolare – e ciò è centrale nell’intervento di Missaglia – il coinvolgimento del protagonismo (non solo sociale, politico e sindacale, ma anche professionale) dei lavoratori nelle scelte relative a entrambe le dimensioni: l’organizzazione concreta del lavoro e le prospettive di sviluppo del prodotto.

Quanto a dire la valorizzazione reale di quello che con un malvezzo linguistico (che porta traccia di mistificazione ideologica) si chiama “capitale umano”.

Qui voglio solo aggiungere un particolare che rafforza il carattere critico del mio invito alla lettura diretta dei testi.

Lo scorso anno Toyota, campione effettivo della Qualità del prodotto perseguita con il modello di cui sopra, ha dovuto sostituire sul mercato migliaia di autovetture che erano uscite dalla produzione con difetti anche pericolosi per i guidatori. Una sorta di “fallimento” clamoroso del modello. Tra le diverse cause una, fondamentale, connessa proprio ad un elemento fondante del modello: l’obiettivo della “flessibilità” di una produzione just in time.

Trasferito tale obiettivo sul piano dell’uso del lavoro (il cosiddetto “capitale umano”) ha alimentato un uso sempre più frequente del lavoro “precario”, parziale, da usare anch’esso just in time. Di conseguenza e in parallelo si sono attenuate, fino a diventare “pura ideologia” i richiami alla responsabilizzazione e alla “creatività” del lavoro che si sarebbero dovute esprimere in una organizzazione capace di fare leva sulla professionalità e autonomia dei singoli e delle isole.

L’effetto è che il “modello qualità” decade per intrinseca contraddizione, per l’attenuarsi di una sua condizione interna.

Un vecchio cane morto che nessuno cita più avrebbe esclamato: “ben scavato vecchia talpa!”. Un commento simile bisognerebbe pure farlo a Marchionne: ha contribuito “oggettivamente” a riabilitare le categorie della “lotta di classe”, fin anche nella enfatizzazione ideologico mediatica del “significato” nazionale che avrebbe assunto una “deliberazione” operaia. “Oggettivamente” ho scritto: per l’interpretazione soggettiva occorrerà attendere.

2) A SCUOLA

La seconda nota riguarda la scuola. Missaglia propone, e Roscani rinforza, l’idea di una possibile ricerca di esperienze di riorganizzazione del lavoro scolastico che “imparino” dalle vicende FIAT. In particolare richiamando la necessità di mettere in capo tali esperienze alla autonoma capacità e sapienza di riorganizzazione del lavoro fondate sulla professionalità, l’esperienza, l’impegno e la partecipazione del “popolo” della scuola. Una “necessità” che diviene vincolo sia per le ragioni generali sopra indicate (vedi la condizione di efficacia dello stesso modello Toyota) e che potrebbero essere riassunte nella considerazione che la riduzione del lavoro a variabile subalterna del modello organizzativo lo riduce a essere “contraddizione” e dunque “debolezza intrinseca” del modello stesso, fonte di una sua possibile degenerazione. Ma una “necessità” che, in termini più contingenti, diventa vincolo generato dalla scarsità delle risorse disponibili per perseguire “modelli di qualità” che, grattando appena la superficie delle affermazioni mediatiche, si rivelano superficiali velleità (a esser buoni), puntualmente contrassegnate dal fallimento.

Propongo però due considerazioni.

La prima riguarda l’autonomia scolastica. Non voglio certo contraddire Missaglia, che credo anzi la pensi in modo analogo. In questi anni si è quasi del tutto consumata la stagione di speranza e impegno che ha accompagnato i dieci e più anni che ci separano dalla scelta compiuta in coerenza con la Bassanini e che ha trovato menzione nello stesso apparato Costituzionale. Provvedimento dopo provvedimento, taglio dopo taglio lo spazio dell’autonomia si è ridotto. Vi ha contribuito certamente il restringimento progressivo delle risorse disponibili, ma anche e forse soprattutto un insieme di provvedimenti che, ripetendo puntualmente il richiamo all’autonomia stessa, la contraddicevano nei fatti. L’elenco sarebbe lunghissimo. Mi limito a indicare il permanere di regole di finanziamento e di funzionamento contabile delle scuole: dove è mai il carattere budgetario del finanziamento, pure affermato dal Regolamento dell’autonomia? Quali sono gli spazi per la gestione “autonoma” del personale? Rispetto alla composizione plurima delle entrate delle scuole (il fund raising di tanti dirigenti capaci di reperire risorse esterne…) che ormai coprono quote consistenti del Bilancio, che senso ha mantenere le regole “amministrative” della contabilità pubblica? Un esempio: con recente provvedimento, da quest’anno la sola voce stipendiale che, nella scuola, è legata alla “prestazione” del personale e che, come voce di Bilancio era gestita dalla scuola stessa, implicando le relazioni sindacali interne, verrà liquidata direttamente dal Ministero. Certo poco più di un “simbolo” (del quale forse qualche segreteria sarà contenta alleggerendosi il suo lavoro). Ma i simboli sono importanti. Mi pare indiscutibile che sottrarre dalla effettività del Bilancio quella unica voce diretta alla retribuzione del personale, riducendola in sostanza a una “posta figurativa” rappresenti simbolicamente una riduzione di autonomia (responsabilità). Non ho sentito veementi proteste, tanto meno da parte sindacale…

Ancora: se dovessimo interpretare in contesto scolastico l’applicazione del decreto Brunetta ai Dirigenti scolastici dovremmo, per coerenza, mutare radicalmente, fino a negarlo, l’assetto dell’autonomia scolastica. Nessun Dirigente pubblico si trova a operare alle condizioni di un Preside, avendo come riferimento gestionale “istituzionale” un organismo “professionale” (come il Collegio dei docenti) e un organismo “politico” ed elettivo come il Consiglio di Istituto. E misurare la propria responsabilità con essi. Siamo di fronte a consistenti misure legislative che vanno in collisione diretta con l’ispirazione e il dettato normativo (fino al limite costituzionale invalicabile) dell’autonomia scolastica. Ha qui pienamente ragione Roscani a chiedersi problematicamente, di fronte alle suggestioni proposte da Missaglia, Chi? Come? Con quali forze si può mettere in campo ciò che Missaglia propone.

Rispetto al contributo di Roscani (il tempo scuola come oggetto di confronto tra domanda sociale di scuola e offerta istituzionale) mi limito a sottolineare il “valore simbolico” del tempo scuola. In realtà si tratta di un “indicatore” di un paradigma più complesso che investe, appunto, tempi, spazi, ambienti, cadenze dell’apprendimento, organizzazione complessiva del lavoro. Anche la categoria di “tempo scuola” rischia altrimenti l’invecchiamento. Ho esaminato esiti delle rilevazioni Invalsi su singole scuole che sembrano mostrare risultati delle classi a tempo pieno inferiori a quelle a “tempo normale”. Interpretarli alla luce di considerazioni che riguardano una utenza “più difficile” è certamente sensato. Ma occorre fare anche lo sforzo critico di rivedere alcune certezze del passato che ci portavano a considerare il “tempo pieno” come un fiore all’occhiello di “superiorità” pedagogiche.

Siamo di fronte alla esigenza storica, dopo avere perseguito un traguardo storicamente rilevante come la scolarizzazione di massa del paese, di superare le modalità tradizionali di organizzazione del lavoro scolastico. Per usare uno slogan: superare congiuntamente lo pseudotaylorismo dello schema organizzativo- amministrativo (classi, ore di lezione, cattedre, organici, moduli spazio-temporali formalizzati, la segmentazione curricolare); e lo pseudotoyotismo dei “progetti” che, nella prima lettura dell’autonomia, si sono inseriti trasversalmente alla continuità ripetitiva della meccanica curricolare, considerata come il “cuore” del lavoro scolastico. Occorre superare, per altro verso, una caratterizzazione dell’investimento in istruzione in termini esclusivi di labour expensive. Era una impostazione coerente con la stagione della scolarizzazione di massa da raggiungere (usare come leva quasi esclusiva il numero degli insegnanti). Oggi, se si vuole mantenere la conquista e svilupparla occorre altra composizione degli investimenti.

Le domande di Roscani sono di quelle che abbisognano di risposte su molti piani: non c’è un “chi” (forze politiche, culturali, sindacali) univoco, né c’è un “come” esaustivo.

C’è invece da aprire con coraggio una stagione storica nella quale le risorse culturali, le rappresentanze sindacali, l’auto organizzazione professionale, riconnettano interessi, aspettative, speranze, ritrovando un “senso comune” del valore dell’istruzione, capace di consolidarsi in una ipotesi di portata storica, al di là degli slogan derivati dal passato, delle categorie che ci hanno consentito di interpretare il mondo e che oggi ce lo rendono di difficile comprensione, della facile indignazione a basso costo.

I soggetti, le forme, gli strumenti e gli interessi sono molti; tutti indispensabili, ma non è sufficiente sommarne le istanze o operare le indispensabili mediazioni. Il compito è “intellettuale e morale” (per dirla con Gramsci). Appunto. Costruire un nuovo “senso comune”. Ma questo, e non altro, è il compito, insostituibile e alto, della politica.

Franco De Anna

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