Una volta nella vita di un liceo francese
Imparare ad amare la Storia studiando il genocidio a opera dei nazisti, per capire come la violenza possa ripetersi ad ogni momento, in ogni luogo, sotto diverse forme, è il tema del sorprendente Una volta nella vita (Les héritiers, 2016) di Marie-Castille Mention-Schaar.
“Sono la professoressa Gueguen [si gira e scrive il nome sulla lavagna d’ardesia, con il gesso], insegno Storia e Geografia e tengo il corso opzionale di Storia dell’arte, per coloro che vi sono stati ammessi. Cercherò di non essere pesante”.
Nessuno l’ascolta o interrompe ciò che sta facendo. C’è chi ride, si sfotte, chi litiga violentemente (l’afrofrancese Malik) con il compagno di classe di turno, chi ascolta la musica con le cuffie, chi si smalta le unghie, chi (una ragazza bella e bulla, la bianca Mélanie) sentenzia, dopo due secondi dalla presentazione della prof: “chi è questa rompi…?”. Diversi indossano il berretto. Solo due o tre, dei circa trenta allievi, sono seduti al banco e attendono di lavorare, nel caso si inizi. La classe è composta di ragazzi e ragazze di diverse etnie, bianchi, neri, gialli. Poi scopriremo anche di diverse religioni: cristiani, musulmani, ebrei. La II B della prof Gueguen è un gruppo-classe, come si dice, “non scolarizzato”, ma lei mostra sin da subito carattere e carisma.
È l’unica che ottiene un’attenzione parziale, invitando i suoi allievi a pensare, mentre gli altri docenti cercano di “fare didattica” nella confusione, fra battutacce e interruzioni senza senso, continui battibecchi e minacce reciproche. La Gueguen, pian piano, prende coraggio e un giorno invita i suoi allievi a partecipare al Concorso Nazionale sul tema della Resistenza e della Deportazione (“È stato istituito nel 1961”). Apriti cielo! “Ma che dice? È impazzita?”. “Figuriamoci, fare ricerche!”;”Ma non mi va!”; “Prof, abbiamo tanto da studiare il pomeriggio, non abbiamo tempo [colossale bugia!]”. “Cosa? La deportazione, il genocidio?”.
Porta dei libri in classe: non conoscevano il Diario di Anna Frank; scoprono Primo Levi, sfogliano un album di disegni su Auschwitz. Ma non sono ancora toccati. La metamorfosi inizia da un “Grazie!” della prof, che saprà accompagnare i ragazzi in un percorso che cambierà profondamente le loro esistenze fino a che, nel pre-finale, a ricerca terminata (“I bambini della deportazione”), dichiarerà: “Sono fiera di voi. Avete fatto un bel lavoro!”.
Una volta nella vita (Les Héritiers, 2016), di Marie-Castille Mention-Schaar – tratto da una storia vera (ambientato nel liceo Léon Blum di Creteil – Parigi) – film con happy end, quindi coraggioso, sceglie una costruzione narrativa a tratti persino “cubista”, grazie ad un crescendo nutrito di una suspense delicata ma spiazzante. Infatti, il progetto sulla Shoà può scivolare via, in ogni istante: il contrasto e le rivalità tra i ragazzi ri-emergono inattesi anche durante il concordato lavoro di gruppo; Gueguen affronta brevi ma intensi momenti di crisi; il corpo insegnante (tranne la collega Ivette) è distante; il preside, contrario (“con quest’argomento rischiamo di turbare la nostra interraziale tranquillità scolastica”).
La regia evita abilmente di impantanarsi nel Kammerspiel da reportage-tv: accanto a chiusi spazi scolastici, la regista monta la vita che continua fuori dalla scuola, in strada o in famiglia, quel tanto per riprendere fiato e offrirci un indizio di più su quegli adolescenti così apparentemente sicuri di sé. Per esempio, la breve sequenza della bulla Mélanie che, rientrando a casa trova la mamma, come di consueto, intontita davanti alla Tv; sul tavolinetto del soggiorno lattine di birra vuote: Melanie lo sgombra in silenzio. La scena ci dice tutto sul disagio della ragazza e sulla sua aggressività che, “ovviamente”, scarica in classe. Nelle scene d’aula Mention-Schaar opta per un montaggio ellittico, con inquadrature di uno o due secondi. La camera è mobile, sovente sull’asse diagonale a 45°, in demi- plongée: insomma, deve rendere il nervosismo e l’asfissia di caratteri che si scontrano e si comprimono anche fisicamente. Gli attori non hanno alcun momento d’incertezza (vi ricorderete di Noémi Merlant, la be/u/lla Mélanie), lo stile è quello felice dell’ibridazione tra il mockumentary e la miglior finzione hollywoodiana postmoderna (tra Gus Van Sant e i Cohen).
Un giorno nella vita, piccolo capolavoro filmico tra estetica e pedagogia, di respiro internazionale, si colloca in quel genere del “cinema sulla scuola” di cui i francesi sono maestri (dal Vigo di Zero in condotta, passando per il Truffaut dei 400 colpi, il Malle di Arrivederci ragazzi, sino al Cantet di La classe e al Barratier di Les choristes).
Qui ragazzi (“Tutti e 27 promossi; 20 con la lode; Malik è attore” – didascalia finale) sono gli eredi (Les héritiers) della Memoria e, attraverso essa, hanno vinto quelle sfide che chiamiamo “scolarizzazione “, “apprendimento condiviso”, “rispetto dell’altro”, “contrasto al bullismo”, “educazione alla cittadinanza”.
Giudizio: Da non perdere.
Eusebio Ciccotti