DL36 alla vigilia della discussione in aula
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In risposta ai questi di DL36 formazione dei docenti
Mentre scrivo questo contributo, il decreto-legge 36 (disegno di legge di conversione 2598) è nella fase della discussione in Aula, licenziato dal lavoro delle Commissioni che hanno accolto una parte degli emendamenti proposti.
Premessa opportuna per rimarcare gli stretti margini di manovra attualmente praticabili in sede di dibattito; dal mio punto di vista, questa circostanza suggerisce di guardare all’intera operazione sotto il profilo dell’impianto complessivo, attraverso una lettura mirata del testo che è approdato alla sede assembleare.
Resta da sottolineare che a tutt’oggi sembra essere mancato un reale coinvolgimento e un lavoro contestuale di riflessione e di confronto sulle tematiche della formazione (iniziale e in servizio) e del reclutamento, fuori dal perimetro degli addetti ai lavori: un’occasione persa per farsi “discorso pubblico”. Questo sarebbe un passaggio necessario, per cercare alleati e soprattutto “riconoscitori sociali”. Intendo con ciò qualcosa di più vasto e comprensivo delle “famiglie”, cui si pensa in questi casi. Quando è chiamato in causa un intervento parziale o strutturale sul sistema educativo, tutte e tutti noi, in quanto parte della società in tutte le sue espressioni, siamo co-interessat* al processo di educazione / formazione / istruzione che trova forma istituzionale nella scuola. In estrema sintesi: siamo oltre i confini stessi della cittadinanza intesa come requisito giuridico, come con esemplare chiarezza afferma la Costituzione, all’articolo 34, comma 1: “La scuola è aperta a tutti”. Tutti vuol dire “tutti”.
Dunque, quale idea di insegnante, all’interno dell’istituzione scolastica, sembra delineare l’impianto del decreto, anche dopo il lavoro nelle Commissioni? Emerge il profilo di un soggetto pre-destinato a sperimentare le vicissitudini e le possibili distorsioni di un percorso puntellato da ostacoli, esami/sbarramento, ripetute “messe alla prova”. Manca, in questa segmentazione, un’efficace strategia che assicuri i punti di raccordo tra i soggetti erogatori: università e istituzioni scolastiche come sistema delle autonomie, restano soggetti sostanzialmente separati e dunque esposti all’autoreferenzialità, nonostante qualche generica affermazione al riguardo riscontrabile nel testo appena licenziato dalle Commissioni.
La stessa cesura, che sconta la carenza di una visione interdipendente dei processi, sembra connotare il percorso di formazione iniziale sotto il profilo disciplinare e quello metodologico-didattico. La dimensione qualificante della formazione iniziale dovrebbe infatti consistere nella capacità di intrecciare in modo contestuale la disciplina (da non confondere con l’accezione inerte della materia di studio) con il suo insegnamento. Se la conoscenza disciplinare resta avulsa dalla metodologia didattica e se questa è ridotta ad un repertorio di tecniche procedurali, la formazione manca il suo obiettivo essenziale. Invocare, allora, la “dimensione formativa delle discipline” per tutto il tempo successivo della formazione in servizio diventa un esercizio retorico da documenti programmatici.
Rischi altrettanto insidiosi vedo, in prospettiva, nei dispositivi che regolano la formazione continua, permanente e strutturale. Per inciso, questa serie di qualificazioni traduce in termini culturali e non puramente giuridico-formali il concetto di “formazione obbligatoria”.
La selezione sembra confermarsi come filo conduttore dell’esperienza formativa, ancora una volta maldestramente identificata con un percorso a ostacoli che mette alla prova le capacità performative del docente. Un itinerario in cui ogni docente è visto come “oggetto”, non “soggetto”. Qualcuno, nei primi commenti, ha paventato a questo proposito un rischio di individualismo… Dubito che sia esattamente questa la “cifra” delle procedure e dei dispositivi previsti. A me sembra, piuttosto, la burocratizzazione, che si spinge intenzionalmente fin su alla costituzione della “Scuola di alta formazione”. Vale la pena soffermarsi su questo istituto, non a caso aspetto specifico del provvedimento su cui il testo in discussione in Aula è intervenuto in maniera “chirurgica”, ben attento a non destrutturarne la funzione, anzi sostanzialmente rafforzandola. La versione emendata del provvedimento sembra insistere sul compito di indirizzo e coordinamento che assume questo organismo, esercitando la sua funzione in sinergia con i livelli istituzionali (centrali e periferici) che sono responsabili dei percorsi formativi. Personalmente ritengo che questa riformulazione sia ispirata ad un mero criterio di “riduzione del danno” certamente utile sul piano del pragmatismo, ma temo inefficace per contrastare alla radice l’impostazione dirigistica che permea l’intera operazione.
La declinazione fin troppo dettagliata degli ambiti per i temi della formazione ne è una ulteriore dimostrazione. Una delle “vittime eccellenti”dell’idea di insegnante e di scuola che ispira l’intero impianto mi sembra essere, in definitiva, proprio l’autonomia scolastica come delineata nel D.P.R. 275/99: in particolare il principio dell’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo (art. 6) che con questo provvedimento entra a far parte definitivamente dell’archivio delle buone intenzioni.
Simonetta Fasoli