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La valutazione oggettiva… vista da Londra

Pubblicato il: 20/04/2011 14:30:52 -


La valutazione degli studenti è attualmente oggetto di sperimentazione e dibattito in Italia. In Inghilterra, un sistema di valutazione basato in larga parte su prove oggettive esiste da lungo tempo. Cosa comporta questo per l’insegnante e per lo studente? È veramente auspicabile basarsi solo sullo “standard”? Che valore assegnare al punto di vista dell’insegnante?
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Premetto che in questo articolo non troverete alcun commento specifico su come le prove Invalsi sono compilate: onestamente, non ne so abbastanza. Il mio punto di vista è quello di un insegnante italiano che, dopo un paio d’anni di precariato in Italia, si è abilitato in Inghilterra e ha deciso di rimanere a insegnare per un po’ nella periferia nord-est di Londra, in attesa che in patria tornino tempi migliori.

Qui in Inghilterra un meccanismo di valutazione “oggettiva” è in vigore ormai da decenni. I titoli di studio sono riconosciuti da organismi indipendenti chiamati “exam boards”. In molti casi, soprattutto nelle materie più “accademiche” (Inglese, Matematica, Scienze, Storia etc.) questo riconoscimento si svolge sulla base di prove oggettive: test scritti che vengono inviati alla scuola il giorno della prova e corretti esternamente. Questo focalizza l’insegnamento sui contenuti di tali prove (che la exam board deve rendere pubblici) e sulle specifiche abilità richieste per superare quel tipo di esami.

Sgombriamo il campo da un equivoco che mi sembra ancora diffuso in Italia. I test Inglesi non sono semplicemente “quiz” o “risposte multiple” in cui sia possibile affidarsi al caso. In un esame “Advanced Level” di Chimica o Biologia (le mie materie), il grosso delle domande è a risposta aperta e richiede al candidato di formulare definizioni rigorose, elaborare spiegazioni usando specifiche relazioni causa-effetto, applicare quello che ha studiato a una situazione complessa e non familiare che gli viene presentata tramite un brano o un set di dati, esprimere opinioni su argomenti in cui la conoscenza del programma non è sufficiente, ma serve una certa cultura generale e uso del ragionamento.

Il tutto viene svolto in un silenzio di tomba, senza alcuna possibilità di chiedere chiarimenti al proprio insegnante – che, anzi, deve lasciare la stanza quando la prova è stata consegnata – e in un tempo decisamente limitato. Gli elaborati sono portati via il giorno stesso, corretti anonimamente e sottoposti a moderazione. Qualche mese dopo, la exam board invia a scuola le buste chiuse con i risultati.

Tutto bene, allora? Dipende… Indubbiamente questo sistema fa selezione. Bisogna vedere se fa una selezione “corretta” e “giusta”.

Un paio di mesi fa sono stato a una conferenza tenuta da Paul Black, studioso di Scienza dell’Educazione. Questo ricercatore è conosciuto in tutto il Regno Unito per le sue ricerche nel campo della valutazione, particolarmente sul modo in cui la valutazione influisce sui progressi futuri dello studente. L’esperto metteva in dubbio l’efficacia delle prove “oggettive”, non tanto nel mettere in gioco competenze avanzate (vedi sopra) quanto nel comparare accuratamente (oggettivamente, appunto) la preparazione di diversi studenti. Tale comparazione oggettiva – meritocratica! – costituisce, nel sistema inglese, la ragion d’essere delle prove oggettive. Solo chi ha A* (il nostro massimo voto) in tutte le materie può fare domanda a Oxford e Cambridge con qualche speranza di essere preso in considerazione!

Black sosteneva – dati alla mano – che il giudizio dell’insegnante PUÒ essere molto più accurato del numero di punti che il ragazzo riesce a totalizzare in una prova “standardizzata”. Perché allora non utilizzare questo giudizio come punto di partenza?

Perché è un giudizio soggettivo, risponderebbero molti inglesi, e come tale sottoposto a influenze di vario genere. Per ovviare a questo Black suggerisce che l’insegnante raccolga “prove” (elaborati di vario genere prodotti dallo studente) a sostegno del suo giudizio. Successivamente, gli insegnanti della stessa scuola e di diverse scuole dovrebbero confrontare e moderare il loro giudizio secondo criteri di verifica validi per tutti. Questa cosa mi ricorda irresistibilmente la commissione di un esame di maturità…

Insegnare in Inghilterra mi dà spesso la sensazione di trovarmi nell’estremo opposto. Qui si valuta in modo assolutamente “oggettivo” e ci si pone il problema di rischiare un po’ di “soggettività” per guadagnarci in accuratezza della valutazione e in efficacia del feedback. L’Italia è esattamente dall’altra parte dello spettro.

Cosa ne penso io? A volte vorrei un po’ più di libertà nell’identificare i contenuti da trattare e il modo in cui valutarli. D’altra parte, quando insegnavo in Italia mi sentivo molto abbandonato a me stesso nel fissare i criteri di valutazione e nell’applicarli. A volte avevo l’impressione che i voti che davo riflettessero semplicemente il mio convincimento soggettivo, facilmente influenzabile – lo ammetto senza problemi – da un insieme di fattori: l’atteggiamento e l’impegno del ragazzo, la sua abilità comunicativa etc. Non parliamo poi del rischio di disparità di trattamento fra diverse scuole o diverse aree del Paese. Di fronte a questo mi sembra molto utile poter fare riferimento a un set di criteri condivisi da tutti.

C’è un altro vantaggio delle prove “oggettive” che però dipende molto da come sono utilizzate. Se gli standard richiesti nella prova sono seri, questo sistema dà modo di insegnare la propria materia in modo molto approfondito di fronte a ragazzi decisamente più motivati che in Italia. L’esame stesso non è un rito stanco che si limiti a sancire quello che è stato l’andamento scolastico del ragazzo negli anni precedenti. Un voto più alto si traduce in più ampie possibilità di scelta e migliori prospettive di vita.

Questo fatto responsabilizza molto di più i ragazzi e il loro insegnante. Alcuni ragazzi che sono stati miei alunni l’anno scorso, provenienti da un background decisamente svantaggiato, per aver studiato con serietà e motivazione, adesso sono in alcune delle università migliori del Regno Unito. Mi ricordo, esattamente un anno fa prima dei loro esami finali, il loro impegno e il mio impegno (diciamo anche uno stress pazzesco!) perché questo fosse possibile. Se ripenso alla classe di maturità della prima scuola dove ho insegnato in Italia, il contrasto è stridente. Quei ragazzi erano ottime persone, alcuni erano particolarmente intelligenti dal punto di vista scolastico e con qualcuno sono ancora in contatto e in amicizia. Tuttavia, il sistema li incoraggiava a impegnarsi poco, nella consapevolezza che il loro impegno non avrebbe fatto grande differenza.

C’è da dire, però, che non tutte le prove inglesi sono “di alto profilo”. Il titolo di GCSE, che viene rilasciato a sedici anni sulla base di esami separati per materie, tende a diventare di anno in anno più semplice, almeno nella mia materia. Dietro a questo ci sono le pressioni dei governi in carica, ciascuno dei quali vuole poter dire che, sotto la sua amministrazione, i risultati medi su scala nazionale sono migliorati. Alcuni ne fanno addirittura una questione di equità sociale: dare un voto buono o ottimo a più persone aiuterebbe a colmare il gap fra i diversi background di censo, culturali, etnici etc.

Il fatto è che, abbassando il livello di queste prove intermedie, si rende ancora più arduo il salto con il livello successivo. In questo modo si avvantaggiano gli alunni di scuole private elitarie che possono permettersi di insegnare “al di là” del programma, preparando i ragazzi per gli esami che contano davvero. Nella conferenza di cui sopra, qualcuno degli intervenuti argomentava che la scuola non può farsi carico di tutte le ingiustizie sociali. Vero, ma magari non può neanche lavarsene completamente le mani.

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Marco Martinelli

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