Una riflessione su due articoli di Giorgio Allulli
I due contributi di Giorgio Allulli pubblicati su questa rivista il 25 novembre e il 9 dicembre (rispettivamente L’importanza delle politiche educative nelle performance scolastiche: alcuni dati e Una strategia territoriale per la scuola), oltre a consentirci, come afferma l’Autore, di uscire dalla cappa ‘covidologica’, suscitano diverse riflessioni.
Una riguarda la definizione della locuzione politica educativa, che è un po’ lo ‘gnommero’” gaddiano di cui parla Raimondo Bolletta nel suo articolo del 25 novembre , in particolare per quel che riguarda l’attributo educativa. Esiste una politica educativa che non faccia capo a una politica tout court? Per dirla in altri termini: cosa richiede dalla scuola pubblica la società italiana, per oggi e per il futuro? A fronte della ‘Offerta formativa’, qual è la ‘Domanda formativa’?
La riforma Gentile di cento anni fa era frutto di una politica educativa ben precisa, che era parte di una politica nazionale altrettanto definita. Non si fa qui questione di merito, ma di metodo. Un’altra grande nazione europea in fieri, la Germania guglielmina, fin dall’inizio del ‘900 aveva messo la scuola al centro dei suoi sforzi di costruzione del nuovo Reich tedesco, con un fuoco più spostato sui livelli di base, sulla scuola che insegnava a ‘fare’ (Berufsschule), oltre che su una campagna capillare di lotta all’analfabetismo. Guglielmo II diceva: «La Germania ha i suoi due pilastri nel maestro e nel soldato».
Per quanto riguarda l’Italia di oggi, impallidita la sua fisionomia gentiliana, la scuola – parlo in particolare della secondaria superiore – non ha più trovato un’identità ed è stata per decenni preda di tendenze politico-culturali di ogni genere (vedi la congerie di riforme che si sono succedute negli anni), che sono state incollate come francobolli di diversa caratura su una vecchia busta priva di indirizzo.
Nel progetto renziano della Buona Scuola, che mi pare abbia lasciato dietro di sé solo qualche relitto, si parlava, per esempio, di un collegamento con il Made in Italy: la scuola deve dunque svilupparsi o organizzarsi funzionalmente alle esigenze produttive del Paese? Se questa fosse la scelta della politica, quale politica educativa mettere in campo, visto che oltre il 50% degli studenti di scuola superiore sta su un percorso di formazione secondaria non terminale (in Germania la media degli studenti che frequentano il Gymnasium è di poco superiore al 35% e lo stesso indirizzo, a differenza del nostro liceo, è molto più aperto alle attività laboratoriali)? Perché allora non incentivare massicciamente gli oggi asfittici ITS e tutti gli indirizzi a terminalità corta o media, anche, per esempio, profilando meglio il percorso della laurea triennale come segmento autonomo professionalizzante e non solo come mera tappa per raggiungere la laurea magistrale (vedi anche l’intervista di Mario Fierli a Patrizio Bianchi Patrizio Bianchi, nel numero del 9 dicembre)?
Allulli riporta il quadro ‘desolante’ del sistema scolastico italiano rispetto ai Benchmark PISA. È un’annosa giaculatoria di peccati: alto numero di abbandoni dopo la scuola media, basso numero di laureati, alto numero di underachievers nelle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche, basso numero di occupati con diploma o laurea tra i 20-34enni – peraltro già di per sé pochi–. In particolare, innescando una sorta di circolo vizioso, quest’ultimo dato ne corrobora un altro, relativo al basso contenuto tecnologico del sistema produttivo italiano e confligge drammaticamente con l’estesa licealizzazione della secondaria italiana, visto che, come è noto, il diploma liceale non è di per sé conclusivo senza il suo naturale completamento universitario.
Che fare per sfilarci di dosso questo ‘cilicio’ annuale dei dati OCSE-PISA? «Gli obiettivi potrebbero riguardare l’innalzamento dei livelli di apprendimento, la riduzione della dispersione scolastica, l’integrazione con il mondo del lavoro» dice Allulli. Sacrosanto, ma obiettivi per raggiungere quali finalità?
Non basta ed è fuorviante chiamare tutti gli istituti ‘licei’ quasi fosse di per sé una conquista democratica (Salvemini diceva che non si può commettere ingiustizia peggiore di quella di dare una scuola eguale a chi eguale non è), mentre assistiamo a un’ulteriore, drastica riduzione della funzione di ‘ascensore sociale’ della scuola e alla persistenza del fenomeno della dispersione scolastica.
Allulli poi, pur parlando del «grave ritardo» che caratterizza la scuola del nostro Paese rispetto agli altri sistemi europei, rammenta che, nonostante la congerie di riforme parziali e prive di una bussola, la scuola italiana è ancora in grado di esprimere ‘punte’ tra le più alte di tutti i Paesi sviluppati, per cui ha perfettamente ragione quando dice che «il primo errore da evitare è considerare la scuola italiana come un sistema uniforme ed omogeneo». Fare la media delle prestazioni in Italia è un’impresa degna di Trilussa, perché da noi c’è davvero chi mangia due polli al giorno e chi zero. Ecco: è la varianza la parola-chiave su cui ragionare e operare nel futuro, ma che non è questione risolvibile all’interno della scuola, anche adottando tecniche e progetti didattici più efficienti ed efficaci.
Infine, una riflessione andrà poi fatta sulla pervasività deteriore del modello classificatorio, del paradigma agonistico, che legge i risultati in base a uno schema formale ‘universale’, a-storico. La Slovenia austriaca è come la Lombardia paragonata alla Calabria, se la si confronta con i dati della Macedonia e della Bosnia ottomane. E poi, possiamo davvero paragonare la storia del nostro Paese con quella che, eufemisticamente, si potrebbe definire ‘meno complessa’ della ‘mitica’ Finlandia e dell’Estonia, la cui popolazione presa nell’insieme supera di poco quella del Piemonte? Quanto alla Corea del sud, avrà pure una scuola di prim’ordine, ma modellata su quale tipo di sviluppo umano, sociale e culturale? Possiamo considerare la Corea del sud ‘un paese moderno’ cui minimamente ispirarci?
Allora va bene così? Per niente. Solo bisogna essere consapevoli del fatto che ‘il peso della Storia’ non è sollevabile con escamotages meramente tecnici e di architettura curricolare tutti interni alla scuola, ma con scelte politiche coraggiose, che assegnino al sistema dell’istruzione pubblica nel suo insieme una finalità culturale e sociale strategica precisa e di lungo periodo. Come l’intendenza, gli obiettivi seguiranno.
Claudio Salone